Un nuovo album dei James rischia di non fare più notizia, in mezzo alle numerosissime pubblicazioni che settimanalmente vanno ad aggiornare un mercato discografico che cerca rinnovate vie di sopravvivenza.
La band di Tim Booth, partita da una Manchester assai recettiva al periodo (basti pensare che sono in pratica coevi degli Smiths, essendo il primo nucleo formatosi attorno al suddetto leader nel 1982), ha attraversato due decenni assai differenti tra loro, non conformandosi mai verrebbe da dire al trend musicale del momento.
Fedeli alla loro linea, che includeva come paradigma una forma pop declinata dai classici d’Albione, la parabola artistica dei James si è sempre abbeverata di ingredienti necessari come la profondità del sound mischiata a melodie spesso e volentieri vincenti, su cui si tessevano trame letterarie degne di un songwriter di razza quale si rivelò presto essere Booth.
Dato per assodato che il periodo di maggior splendore commerciale i Nostri lo manifestarono in quei magici nineties che per il Regno Unito significò riappropriarsi di una sua chiara e definita identità musicale, occorre precisare che essi non godettero mai dei fasti concessi a band che in qualche modo gli erano pure debitori, anche se il loro nome è tuttora un’istituzione da quelle parti.
Non fecero rumore e non li trovavi nemmeno inseriti nelle raccoltone britpop, forse perchè appunto venivano da più lontano, cosicchè a differenza dei Pulp – tanto per tirare in ballo un nome illustre – i quali partirono dagli anni ottanta per sposare la causa britpop diventandone paladini e gruppo traino, i James non furono mai incasellati in un fenomeno che avrebbe potuto rivelarsi anche effimero.
Eppure, i picchi creativi li toccarono con album come “Laid” e “Whiplash” che, usciti rispettivamente nel 1993 e nel 1997 riascoltati oggi non possono proprio mancare in una qualsiasi seria retrospettiva sulla rinascita della musica pop inglese.
Tornando ai giorni nostri, da quando si sono ricompattati attorno al suo leader (in pratica dalla reunion avvenuta nel 2007) hanno ripreso a macinare musica, pubblicando dischi a cadenza regolare, segno di una ritrovata vena artistica e di un entusiasmo genuino che poi si riflette in canzoni in cui è venuta a mancare a tratti certa epicità dei tempi migliori, in luogo di un mood più rilassato che si riflette ottimamente anche in “All the Colours of You”.
Il nuovo album infatti scorre via sotto il segno di una leggerezza, concedetemi il termine, consapevole, con i James che appaiono in piena salute e in grado di rivaleggiare con le band coeve, armati di arrangiamenti cristallini e di una maestria nel comporre canzoni che, certamente viene anche dal mestiere ma non tralascia mai la qualità e l’onestà intellettuale.
Nel brano d’apertura “Zero” l’epicità che temevo smarrita si percepisce in lontananza, filtrata da una produzione in linea con i tempi che ne contiene le aperture melodiche in segno di una maggior attenzione al dilatarsi libero dei suoni. Subito dopo giunge la solare title track, a cui fa seguito la raffinata “Recover”, intima e crepuscolare, forte di una delle migliori performance dell’espressivo Tim Booth.
Man mano che scorrono agevolmente le tracce, percepiamo che a canzoni generalmente ispirate e ben confezionate come l’innodica “Wherever It Takes Us” o l’istrionica “Getting Myself Into” manca la componente spirituale, quell’anima soul che ho sempre percepito come il vero tratto distintivo del gruppo. Talvolta lo smacco è evidente, penso a un brano privo di mordente come “Hush”, ma poi la voglia di grandeur viene compensata da pezzi ad ampio respiro che sembrano pensati apposta per le arene.
Certo, quando ci si imbatte in episodi struggenti come “Miss America” capisci che i James possono fare a meno di tanti artifici sonori o di quegli arpeggi irresistibili di chitarre (disseminati ovunque nella produzione 90’s) per emozionarci e coinvolgerci, perchè come detto questa variegata band non ha mai guardato alle mode per veicolarci la propria arte.
Non sarà un lavoro rivoluzionario “All the Colours of You” ma ci mostra un gruppo affiatato e in piena forma, per il quale l’anagrafe serve solo a testimoniare quanta bella strada sia stata svolta sinora, e quanta orgogliosamente si è pronti di nuovo a percorrerne.