Ce l’ho a casa il libro di Alfred Doeblin, peraltro in inglese, e giuro che prima o poi lo leggo. Così come prometto di guardare la serie che Fassbinder ne ha tratto nel 1980. Magari procederò a ritroso: prima la serie di Fassbinder, poi il libro.
Del resto mi sono accostato a questo ideale tracciato letterario-cinematografico, ispirato dalla natura drammatica e controversa di una città  un po’ mamma un po’ puttana come Berlino, partendo dal suo capo più recente, ossia questo film omonimo presentato dal regista di origine afgane Quarbani alla scorsa Berlinale.

La miseria della Berlino degli ultimi, capitanati da un inedito Franz dalla pelle nera, questa volta è quella degli spacciatori di Volkspark Hasenheide a Neukoelln. Nelle abbondanti e crude tre ore di film, divise in cinque capitoli, il disperato protagonista si troverà  ripetutamente a scegliere tra bene e male, procrastinando per debolezza o necessità  la sua redenzione. Chi ha letto Doeblin o visto Fassbinder sa quanto e cosa questo eterno rimandare gli costerà .

Il racconto di Qurbani non lascia niente all’immaginazione, la fotografia è torbida e psichedelica, la aiuta una colonna sonora straniante (micidiale ad esempio l’utilizzo di “Quitame la piel” di Arca negli intermezzi onirici). Il parco attori è credibile e urbanamente berlinese, tra loro svetta però il mefistofelico e sciancato Reinhold di Albrecht Schuch, personaggio davvero schifoso che riesce a turbare con le sue imprevedibilità  e perversione anche chi si trova dall’altra parte dello schermo.