La metà  degli anni novanta fu tutta un fiorire di uscite discografiche destinate a lasciare un segno nel cuore degli ascoltatori e a diventare colonna sonora, non solo di una stagione musicale, ma in alcuni casi di un’intera vita.

Senza scomodare gli almanacchi, basta essere nostri attenti lettori per accorgersi di quanto fermento musicale ci fosse, con la nostra rubrica dedicata ai compleanni che sovente va a ripescare dischi pubblicati in quella fortunata era.

Il 1996 in particolare è davvero molto celebrato (giustamente) e, accanto a titoli passati ai posteri, ci sembra giusto omaggiare anche lavori cosiddetti minori ma che seppero accendere la miccia della curiosità  e della passione negli ascoltatori, riuscendo talvolta a conquistarsi un meritato posto al sole in mezzo a quel caleidoscopico mercato, pullulante di uscite meritevoli.

Di non solo britpop si viveva in Inghilterra, anche se la pigrizia di certa critica, o la comodità  di etichettare facilmente (e frettolosamente) faceva sì che in quel colorato calderone ci finissero dentro anche gruppi o artisti magari accomunati da radici musicali comuni ma distanti evidentemente per sensibilità  e proposta artistica.

Venticinque anni fa veniva pubblicato l’album d’esordio di una band unica nel suo genere,   capace di destare immediatamente interesse: era intitolato semplicemente “K” e i suoi titolari si chiamavano Kula Shaker.

A ben vederli, il cantante e chitarrista Crispian Mills (figlio e nipote d’arte, il nonno era il noto attore John Mills), il meditabondo tastierista Jay Darlington, il bassista Alonza Bevan e il batterista Paul Winterhart, sembravano in effetti ben diversi da tanti epigoni colleghi impegnati a ridare lustro alla musica d’Albione dopo anni di dominio a stelle e strisce.

I Kula Shaker non ammiccavano con look modaioli o dichiarazioni roboanti – almeno all’inizio –   e (fattore in fondo preminente) dal punto di vista musicale sembravano avere orizzonti più ampi. Ciò ne faceva alle orecchie degli appassionati un gruppo con una sua particolare specificità  e una spiccata personalità .

Identificati presto col carismatico Crispian, all’epoca del debut album poco più che ventenne, irruppero sulla scena dopo aver già  sperimentato sulla propria pelle un drastico cambiamento, prima di tutto interiore, frutto della recente e autentica fascinazione per il mondo orientale, e per l’India in particolare.

Fu proprio un viaggio in solitaria del cantante in quella terra ricca di spiritualità  e contraddizioni a far scattare la scintilla e un desiderio poi di tradurre con la propria arte tutte quelle suggestioni.

Messa da parte la sigla sociale Kays – che già  vedeva protagonisti i futuri componenti dei Kula Shaker – era tempo quindi di fare sul serio, corroborati da un interesse condiviso e crescente per la cultura indiana, fatta di misticismo, letture, conoscenze filosofiche e ovviamente di un apparato musicale sorprendente che portava in dote con se’ una strumentazione che da anni non si sentiva nel pop e nel rock.

Nelle canzoni della neonata band, insieme a importanti e puntuali riferimenti all’induismo, compaiono tipici strumenti indiani come il sitar, la tabla e altri ancora, da mescolare sapientemente con quelli tradizionali del rock in modo da creare un sound personale e assai affascinante.

Ingredienti che si riscontrano sin dal fortunato singolo di debutto “Tattva”, così diverso da tutto quello che si ascoltava nel 1996, con i suoi echi psichedelici e l’aura misteriosa, ma anche in possesso di una melodia a presa rapida, vagamente ipnotica.

E’ un vagito importante e significativo, perchè a questo pezzo seguirà  poi “Grateful When You’re Dead/Jerry Was There” (dedicato al grande Jerry Garcia morto l’anno precedente), altro singolo con tutte le componenti giuste a farci comprendere il terreno d’azione dei Nostri: il recupero di certe sonorità  anni settanta, della stagione psichedelica, fatta di taglienti riff e di divagazioni sonore mistiche e sfuggenti, il tutto attualizzato in una formula fresca ed energica.

Del gruppo si comincia a parlare, la stampa inglese naturalmente coglie la possibilità  di creare l’ennesima next big thing del pop, ma per una volta sarà  nel giusto a concedere copertine e articoli a questo nuovo fenomeno in pectore.

Sull’onda di tanto interesse viene ripubblicato “Tattva”, stavolta corroborato da un videoclip che finirà  in alta rotazione, preludio dell’uscita del primo album, con l’attesa che, specie Oltremanica, si era fatta a quel punto spasmodica.

I risultati di tanta semina furono in qualche modo eclatanti, perchè “K” riuscì a debuttare direttamente al primo posto della classifica inglese, divenendo tra l’altro il disco di debutto più venduto nella sua prima settimana di uscita dai tempi dell’epocale “Definitely Maybe” degli Oasis (e sappiamo quanto gli inglesi tengano a queste cose!).

Immergersi in “K” equivale a salire in un frullatore di emozioni, cariche e pregne di significati, significa avvertire forte e chiaro l’eco di un’epoca lontana ma mai dimenticata (i magici seventies) e allo stesso tempo farsi rapire dai tanti riferimenti della cultura di un popolo lontano geograficamente ma assai vicino al cuore dei Kula Shaker.

Ragazzi che le cose le sapevano fare per bene, perchè ad esempio non era affatto scontato che una canzone interpretata in sanscrito potesse ottenere un successo planetario!

“Govinda” con i suoi toni cadenzati e avvolgenti e la melodia orientaleggiante e magnetica riuscì nell’impresa, portando i Kula Shaker a un livello superiore a quello di tanti gruppi coevi, scardinando in pratica le regole del pop.

Ho usato questo termine in maniera impropria, perchè di pop in realtà  ve n’era ben poco tra le pieghe di questo album, dove a dominare sono clamorosamente le chitarre, declinate via via in chiave hard, garage e in primis psichedelica.

Dalla partenza roboante affidata alla coinvolgente “Hey Dude”, il cui riferimento a uno dei mostri sacri degli anni ’70 è quasi esplicito, a una “Knight on the Town” che ti perfora le orecchie con il suo travolgente rock’n’roll, al rifacimento non proprio calligrafico di “Hush” nella versione dei Deep Purple, è indubbio tutto l’amore che sgorga dagli animi e dalle penne dei Kula Shaker per un determinato immaginario, che va ben oltre i padrini Beatles e Rolling Stones.

A colpire maggiormente e a rendere prezioso e raro questo esordio sono però quegli episodi che ti proiettano altrove, come la variopinta “Temple of Everlasting Light”, la scheggia impazzita “Hollow Man” (divisa in due parti), per non dire degli strumentali “Magic Theatre” e “Sleeping Jiva” dove a risaltare sono rispettivamente una malinconia struggente e un senso di candore mistico.

“K” è un manifesto credibile, riuscito e genuino di un gruppo ricco di talento e valore, che fece rimbalzare il proprio nome assurgendolo a simbolo di un’epoca.

Peccato che poi Mills e compagni non sempre furono in grado di focalizzarsi in una direzione, finendo inevitabilmente per disperdere alcune idee e intuizioni, quelle stesse che invece – fluide e copiose – fecero di questo album un magnifico documento artistico.

Kula Shaker ““ K
Data di pubblicazione: 16 settembre 1996
Tracce: 13
Lunghezza: 48:51
Etichetta: Columbia
Produttore: John Leckie, Crispian Mills, Shep & Dodge

Tracklist
1. Hey Dude
2. Knight on the Town
3. Temple of the Everlasting Light
4. Govinda
5. Smart Dogs
6. Magic Theatre
7. Into the Deep
8. Sleeping Jiva
9. Tattva
10. Grateful When You’re Dead/Jerry Was There
11. 303
12. Start All Over
13. Hollow Man (Parts 1 & 2)