Pare quasi pleonastico scrivere in premessa che si tratta di impresa titanica ed ingrata, vuoi per la caratura del gruppo, vuoi per la longevità  della loro carriera, che dagli anni ’60 arriva ai giorni nostri.
Non trovo di nessuna utilità  insistere sulla difficoltà  di selezionare le canzoni migliori ma l’unica premessa plausibile che potrò fare è accennarvi ai criteri che ho seguito nello stilare tale compilation, senza che ciascuno si arrabatti a cercare le inevitabili assenze.
Da una parte la scelta è stata dettata dalla necessità  di coprire cronologicamente l’intera carriera , ovvero si ragionerà  “per decenni”, con l’ovvia considerazione che alcuni decenni meriterebbero maggior spazio rispetto ad altri; dall’altra significa che seguirò giocoforza un criterio più soggettivo del solito, non inserendo per forza le più famose o le “migliori” in assoluto.

Saranno esclusi dalla selezione i live album, le antologie, b/side & outtakes comprese.

Mi faccio piccino piccino in modo da evitare flagelli e timido di fronte alla maestosità  di coloro che scelsero di farsi chiamare Rolling Stones, con buona pace di Muddy Waters.

GLI ANNI ’60:

La discografia relativa si snoda in un percorso composto da 11 album, senza invischiarci nei meandri delle diverse edizioni pubblicate per il mercato americano rispetto a quello europeo.
Splendidi testimoni in terra d’Albione del rock “‘n’ roll e del blues ma con una attitudine fresca e rivoluzionaria, inanellano una serie di album imperdibili dove le cover (inizialmente quasi il totale del repertorio inciso) lasciano via via sempre più spazio alla penna autografa e che pertanto in qualità  di autori e non solo interpreti fa sì che aggancino i Beatles nell’essere i protagonisti assoluti e senza tempo della storia della musica (e non solo) del “‘900.

Inutile dire che gli album irrinunciabili risultano essere, come minimo, l’esordio omonimo, “Beggar’s Banquet”, “Let It Bleed” ed “Aftermath” .

Scegliere tre brani in questo mare di tesori significa lacrimare sangue.

Dall’esordio omonimo citiamo “Route 66”, come esempio di cover e testimonianza lampante di come il gruppo pescasse dal passato (non solo blues) per rileggerlo in maniera già  incisiva ed originale; brano del 1946, portato in gloria dal jazz crooner Nat King Cole.

Siamo nel 1964 ed il mito ha inizio.

“Sympathy for the devil”: che sia solo leggendaria la presunta ispirazione da Baudelaire, qualsiasi direzione prenda il vostro gusto, tutti se amano o vogliono conoscere il rock passeranno dal ferino e morboso fascino di questa perla senza tempo, che allinea per una volta con equilibrio celebrità  e qualità  intrinseca.

La scelta poteva ricadere indifferentemente su un brano piuttosto che un altro ma potremmo stilare almeno 10 top 10 (scusate il gioco di parole) diverse senza alcuno sforzo.

Da “Let it Bleed” selezioniamo “Gimme Shelter”, ma sostuitela pure con un’altra a vostro piacimento, che tanto le delizie della tracklist sono imbarazzanti per quanto sono inebrianti.

GLI ANNI ’70:

Nel decennio del riflusso, così almeno lo definiscono, e dell’abbandono dei sogni più libertari e collettivi, 3 capolavori scolpiti nella pietra ad imperitura memoria (“Sticky Fingers”, “Exile on Main Street”, “Some girls”), tre ottimi album, ovviamente rivalutati perchè al tempo intesi o come momenti di arresto (“Goats Head Soup”, “It’s only rock n’n roll”) o come deviazione di percorso non da tutti apperezzata (“Black and Blue”)

Valga come detto sopra, senza che lamentiate le assenze, ovvero sostituite pure le prossime tre con quelle che preferite, che nel pescare da tante meraviglie è impossibile sbagliare.

Andy Warhol rende iconica la sublime morbosità  del gruppo nel 1971 con la celeberrima copertina di “Sticky fingers” e i ragazzacci ringraziano.
Ci regalano “Brown Sugar”, che apre l’album ma rende impossibile l’impresa di fermarsi alla prima traccia.

Essere enciclopedici senza essere ridondanti, pedanti, derivati: questo è “Exile on Main St”; vi lascio agli aromi r&B e ai fiati di “Tumbling Dice”.

Ogni qual volta si discute di “Some Girl” si ricorda come fosse la risposta degli Stones al punk; poco importa (come poco importa ricordare che il punk non cancellò tutto come spesso si legge, ma questa è un’altra storia).
Ciò che interessa è che qui sui gode e la parte sbarazzina di Jagger trionfa in “Miss You”, altro ed ennesimo evergreen.

GLI ANNI ’80:

Forse ingeneroso regalare tre pezzi a tale decade come per i sessanta e i settanta, ma rispettando il criterio autoimposto ed esplicitato in premessa, proseguiamo senza recriminazioni ulteriori.

L’epoca d’oro è finita, scriviamolo senza pentimenti.

Si cerca di mantenere la propria inconfondibile identità  ma inseguendo l’attualità  (“Emotional Rescue”, “Undercover”) con risultati non disprezzabili ma tutt’altro che entusiasmanti.

Il capolavoro lo trovate anche in questo decennio (“Tattoo you”), ma pure il primo tonfo di carriera (il debolissimo e pacchiano “Dirty Work”) e il ritorno ad un classicismo forse un po’ manierista (“Steel Wheels”).

Ovviamente molti avranno notato la mancanza, nel paragrafo dedicato agli anni ’60 di “Satisfaction”, una delle canzoni con il riff più riconoscibile della storia, niente paura…

…e recuperiamo pure un altro riff immortale che ritrovate nell’altrettando celeberrima “Start Me Up” del 1981.
Semplicemente un classico che diviene tale dal primo ascolto.

Non è un brano da top ten e forse nemmeno da top 40 degli Stones, ma visto che dobbiamo testimoniare l’intero loro percorso, compresi i periodi meno fertili, mi permetto stavolta di fare una scelta al 100% soggettiva/emotiva e dettata dall’affetto che porto dentro di me per “Mixed Emotions” del 1988 tratta da “Steel Wheels”, che fu uno dei primi compact disc che comprai (avevo da circa due anni iniziato ad abbandonare le cassette, acquistando LP) .

Conoscevo alcuni loro classici ma ero eccitato dall’idea di poter vivere finalmente in diretta l’acquisto di un loro lavoro che fosse nuovo .

Il singolo (sì proprio “Mixed Emotions”) che passava per radio o il video che era in heavy rotation a Videomusic (MTV in Italia non esisteva) me li faceva sentire freschi nonostante l’età  (già  allora erano considerati quasi dei vechietti).

Dopo le liti di metà  anni ’80, tornavano per un faraonico tour mondiale e con un disco più che onesto, a ribadire che mode e tendenze musicali potevano susseguirsi ma gli Stones c’erano e ci saranno stati sempre.
Contro ogni tendenza, ma ormai avrete capito che questa top ten segue percorsi e criteri completamente diversi dal solito, scegliamo un pezzo dal loro disco più debole, tanto per inserire anche nelle scelte di questa anomala compilazione una traccia della provocarietà  beffarda degna degli Stones.

Vi invito pertanto a ripescare la cover di “Harlem Shuffle”, in originale un classico del soul anni ’60.

GLI ANNI ’90 e 2000:

Non ci crederete ma anche gli anni ’90 regalano soddisfazioni e nessuno osa considerarli “dinosauri da pensione”, rammentando in ogni caso che gli album veri e propri sono solo due.

Impossibile non lodare il vigoroso “Voodoo Lounge” del 1994 (“Love Is Trong” a rappresentarlo), mentre più debole e gigionesco risulta essere “Bridges to Babylon” del 1997 (“Anybody Seen My Baby?” è il singolo che usiamo per indicarlo), che per me rimane comunque un album godibilissimo che ho consumato di ascolti.

Negli anni 2000 si dedicano a consolidare il loro mito grazie ai periodici tour (ho avuto la fortuna di assistere al loro concerto di San Siro – Milano del 2003) e alle pubblicazioni che vanno a rinverdire le uscite del catalogo storico, sia in studio che live.

Due soli album all’attivo, di cui l’ultimo di cover (quasi a voler idealmente chiudere il cerchio con gli inizi di carriera) ovvero l’onestissimo “A Bigger Bang” del 2005 (ne ripeschiamo “Streets Of Love”) e “Blue Lonesome” del 2016 (peschiamo “Ride ‘Em On Down”, composta dal bluesman statunitense Bukka White).

Il resto è storia, compresa la recente dipartita del batterista Charlie Watts, a cui idealmente dedico questa classifica.