“Eleanor Rigby”, per certi versi, è stata una svolta, perchè, per la prima volta, una tematica cruda e dolente entrava, come protagonista assoluta, in un contesto sonoro e melodico essenzialmente pop, consentendo, allo stesso tempo, a quella che si era presentata, fondamentalmente, come un band di musica leggera, poco incline ad affrontare tematiche sociali più consistenti, complesse ed impegnative, di aprirsi ad un mondo nel quale il dolore e la sofferenza, la solitudine e la morte, erano assolutamente reali.

Di conseguenza, anche dal punto di vista strettamente sonoro, era giunto il momento di oltrepassare le limitanti barriere del pop ed incamminarsi in una dimensione di sonorità  più acide, più psichedeliche, più energiche, più selvagge, più profonde.

In quel lontano 1966, quando il brano venne alla luce, i Beatles volsero, finalmente, il loro sguardo verso il lato nascosto della Luna, spostandosi nella direzione di quelle trame sonore e soprattutto di quelle percezioni e quegli stimoli che avrebbero consentito loro di giungere a “Sgt Pepper” ed al fantomatico album tutto bianco.

Di supposizioni su Eleanor Rigby, se, cioè, ella fosse veramente esistita o se fosse solamente il frutto di ricordi giovanili, di associazioni mentali e di ottime intuizioni da parte di Paul McCartney, ne sono piene le pagine dei libri e delle riviste musicali e oggi anche della rete. Ma l’aspetto fondamentale, però, è un altro; è che questa donna è una creatura fragile, sola e dimenticata; ormai è una donna anziana, ma continua a compiere azioni che, probabilmente, le rammentano i tempi andati oppure le sta compiendo solamente per abitudine o per ingannare sè stessa, pensando che esse possano fare ancora una qualche differenza per qualcuno. In realtà  Eleanor non ha nessuno per cui possano fare una differenza, non c’è un ragazzino chiamato Paul disposta ad ascoltarla ed allora se ne sta tutta sola a raccogliere il riso che è stato gettato via, per contentezza, dopo un matrimonio ““ momento di massima felicità  e partecipazione ““ condividendo quello spazio cupo e silenzioso, una chiesa, con un prete, tal padre McKenzie, il quale, come lei, è un uomo solo e abbandonato al flusso dei suoi pensieri e delle medesime ricorrenti azioni, in particolare quella di scrivere sermoni che nessuno ascolterà  mai, mai e poi mai.

Quello spazio fisico condiviso, quella necessità  di ripetere nel tempo le identiche azioni, apparentemente inutili, avrebbero potuto dare a quelle due solitudini la possibilità  di incontrarsi, relazionarsi ed interagire, di sentirsi un po’ meno sole, ma Paul scelse, per i due protagonisti, un altro triste destino, perchè un’altra importante e onnipresente protagonista delle nostre esistenze avrebbe fatto la sua fatidica apparizione in scena, rendendo praticamente impossibile questo ipotetico incontro. Eccola, dunque, signora Morte prendere, improvvisamente, con sè la cara Eleanor e spezzare, per sempre, la sua routine, lasciando che quei chicchi di riso restassero lì, inermi, sul pavimento, così come sarebbero rimaste inermi le parole del suo sermone, macchie d’inchiostro su un foglio bianco.