La storia della musica è piena di dischi capaci di catturare lo zeitgeist, lo spirito del proprio tempo, e che indissolubilmente leghiamo a un ricordo, un evento, in grado di fotografare cosa stava succedendo in un determinato periodo.

Ci sono poi quegli album che riescono ad arrivare a milioni di persone, pur non essendo pensati in maniera “commerciale” ma che magicamente mettono d’accordo tutti (il pubblico e la critica più intransigente); gli album usa e getta ci sono stati e ci saranno sempre, sono spesso piegati a una moda passeggera, di solito senza velleità  artistiche, a differenza invece di quegli episodi che nascono da un’idea, un concept, e possono essere introspettivi e rappresentare il mondo del suo autore, oppure legittimamente ambiziosi.

Infine, ci sono lavori che magari contengono dentro di sè tutte le caratteristiche perfette per colpire l’immaginario di molte persone e segnare un’epoca, all’interno di una scena florida come quella nata e sviluppatasi negli anni ’90 in Italia, sorta di età  dell’oro per la musica alternativa tricolore in tutte le sue salse (pop, rock, hip hop, posse, folk, elettronica, canzone d’autore…). Potevano, ma per i motivi più svariati, non ce l’hanno fatta.

E’ il caso del disco che andiamo oggi ad omaggiare, pubblicato esattamente vent’anni fa.

Sul finire del millennio esordirono i Sushi, trio torinese capitanato dal factotum Ale Bavo, che già  si stava facendo un nome come uomo “dietro le quinte”, collaboratore in diverse vesti in molti dei titoli in voga nel panorama underground.

“Un leggerissimo disturbo da panico”, uscito nel 1999 per la Mescal (a proposito di un marchio capace di intercettare artisti talentuosi e lanciarli a livello discografico), aveva suscitato curiosità  e raccolto dell’interesse, grazie a gioiellini quali la pimpante “Viaggio in cina” e la tenera “La mia cameretta”, e a una forte presenza scenica dei suoi protagonisti, su tutti la giovanissima cantante Otti Bavo, sorella del già  citato Ale.

La sua voce ancora adolescenziale, un po’ acerba se vogliamo, era invero adattissima a trasmetterci quelle istantanee di vita, intessute in un vortice sonoro dove il pop elettronico appariva per lo più rassicurante, con aperture al rock e divagazioni danzerecce, a iniziare proprio dal singolo “Viaggio in Cina”, corredato pure da un simpatico videoclip.

Erano qualcosa di abbastanza originale, in un ambito che già  annoverava esperienze felici come quelle degli Ustmamo’, dei Soon, dei Mao e la Rivoluzione o dei Subsonica.

In particolare, al di là  dei gruppi citati, si stavano facendo largo tante voci femminili, così anche quella di Otti reclamava il suo spazio, essendo in possesso di una personalità  che aveva bisogno di uscire allo scoperto.

Nel 2001 i tempi erano maturi per un nuovo album e per la conseguente piena affermazione dei Nostri, cosa su cui io avrei scommesso a occhi chiusi.

L’auspicato salto di qualità  infatti pareva concretizzarsi sin dalle prime tracce presenti in “Un mondo terribilmente volgare”, titolo emblematico scelto per illustrarci un contenuto davvero lontano, per tematiche e suggestioni, da quello del debutto.

I Sushi, divenuti un quartetto con l’ingresso in pianta stabile del polivalente batterista Ciuski Barberis (ex tra gli altri dei corregionali Mau Mau) ad affiancarsi ai fratelli Bavo e al validissimo chitarrista Paolo Menegotto, cambiarono decisamente rotta, non solo a livello puramente musicale, con l’inasprimento di sonorità  ora molto cupe e darkeggianti, ma anche per dei testi più amaramente consapevoli, e nell’insieme più profondi e viscerali.

L’ombra prende assolutamente il sopravvento, penetra gli spazi e permea in pratica ogni brano: è difficile infatti trovare la luce in canzoni dal fascino obliquo come l’opener nichilista “La fine”, composta da versi disperati come “La fine è vicina/nessun futuro/nessuna speranza/nessuno che mi tenga al sicuro/La fine è vicina/tutto è perduto/la fine è vicina/non ti accorgi che ho bisogno d’aiuto?”, declinati in un ficcante rock di matrice industrial.

Poche parole lancinanti bastano a delineare l’intero mood dell’opera, che si dispiega talvolta su territori più morbidi, pur mettendo sempre in evidenza un senso di autentico disagio, quella sensazione di trovarsi nel posto sbagliato.

Prova ne è la paradigmatica “Vittima della timidezza”, dove Otti è assolutamente disarmante quando in modo appassionato ci trascina al ritornello: “Non riesco mai a comunicare con te/non riesco mai a lasciarmi andare/non riesco mai ad esprimere con chiarezza ciò che sento/probabilmente sono solo vittima della timidezza/non parlo quasi mai/mi chiudo in me stessa”, il tutto avvolto in un climax ascendente di urlo e dolore.

Altri episodi cardini di quella che somiglia a una sorta di psicoterapia di gruppo, dove ci si può immedesimare o quanto meno provare empatia, sono sicuramente “Non riesco ad essere perfetta”, meno rassegnata nei toni (a cui il cantato conferisce sensualità ) e dall’incedere ritmico elettrizzante, e la vorticosa, coinvolgente “Tienimi con te”, sintesi perfetta del disco.

E’ questo infatti il brano che meglio rappresenta le anime della band, a creare un amalgama unico dal quale emergono, con la medesima forza intrinseca e inaudita intensità , le sferzate elettriche di Paolo, le alchimie sonore di Alessandro e Ciuski  e la voce, mai così sicura, di Otti, in un centrifugato musicale che mi piace definire elettro-grunge-pop.

Altrove i giri rallentano e la crudezza delle parole è mitigata da un contesto meno arrembante, vedi la lunare “Sono nelle tue mani” e l’obliqua “Fare parte del g.u.”, dove il gruppo prende addirittura le distanze dal genere umano.

Lo sforzo in fase di produzione e di colore del suono, appannaggio di Ale Bavo (autore e compositore principale dell’album) è veramente lodevole e conduce il disco su livelli alti, se consideriamo la produzione italiana di quegli anni.

Si potrebbe imputare al disco un certo senso di ripetitività  nei temi, ma l’assoluto candore e la spietata naturalezza con cui vengono interpretate le varie canzoni, e le diverse soluzioni musicali annesse, riescono nell’intento di valorizzare ogni singola parte dell’insieme, tanto da scongiurare il rischio di imbattersi nei cosiddetti riempitivi.

“Un mondo terribilmente volgare” ci appare oggi come vent’anni fa un grido sincero, la cui urgenza si fa tangibile; risulta senza dubbio difficile da metabolizzare e richiama a una particolare predisposizione, ma è altresì innegabile la sua capacità  di trasmettere e veicolare forti emozioni.

E’ un disco oscuro, ammaliante, di quelli che entrano sotto pelle lasciandovi una traccia indelebile.

Non ci sarebbe stata, purtroppo, una nuova prova d’amore (e resistenza) da parte dei Sushi, che dopo questo album si sciolsero, con i quattro a seguire nuove strade.

Di Ale Bavo si è accennato all’inizio, e per chi è avvezzo alle nostre pagine il suo nome non dovrebbe avere bisogno di presentazioni; la sorella Otti, dopo un periodo speso lontano dai riflettori, era tornata alla musica prima con i Mallory Switch e poi nel progetto Einaugen (in entrambi i casi formati con Ciuski), due proposte molto valide ma parecchio ostiche e che poco o nulla concedevano in termini di facilità  di ascolto.

Credo di non sbagliarmi però nel dire che saranno per sempre legati (e collegati) all’esperienza dei Sushi: è vero, non avranno ottenuto grandi numeri, nonostante le evidenti potenzialità , ma chiunque li abbia incrociati nel loro cammino è finito inevitabilmente per amarli e ne conserva un dolce ricordo nel cuore.

Sushi ““ Un mondo terribilmente volgare
Data di pubblicazione:  23 novembre 2001
Tracce: 12
Lunghezza:  54:22
Etichetta: Mescal
Produttore: Alessandro Bavo

Tracklist
1. La fine
2. Vittima della timidezza
3. Non riesco ad essere perfetta
4. Sono nelle tue mani
5. Un pomeriggio di maggio
6. S_tensione morale
7. Fare parte del g.u.
8. Credevo di potermi fidare di te
9. (6)
10. Tienimi con te
11. Il cerchio (senza alcuna via di fuga)
12. Nessuna speranza