«All’avvicinarsi della sorgente, il ruscello scorre più puro. ». Così scriveva John Clare, un poeta romantico, in un suo scritto dell’Ottocento. La stessa frase che, oltre un secolo dopo, capitò sotto gli occhi di un fanciullo biondo che stava leggendo un libro regalatogli dalla madre.
Pare che quel fanciullo di una volta, alla fine, sia riuscito a scorgerla quella sorgente.
L’ha trovata in un’isola timida, che preferisce starsene in disparte lassù.
Damon Albarn ha trovato l’Islanda.

L’artista di Londra stava guardando un documentario in TV quando venne a sapere dell’esistenza di una spiaggia dalla sabbia nera nell’isola scandinava. Qui, Albarn ebbe un sussulto: era identico a quello scenario suggestivo che ricorreva spesso nei suoi sogni d’infanzia.
Fu così che il nostro caro percepì una sorta di vocazione da parte di quella terra e non ci pensò due volte a preparare i bagagli.
D’altro canto, stiamo anche parlando di un luogo dal patrimonio musicale di tutto rispetto; giusto per citarne due: i Sigur Rós e Björk (insomma, voglio dire”…).
A Reykjavik si comprerà  una casa e ci registrerà  buona parte di due dischi essenziali dei Blur: l’omonimo del 1997 e “13”.
Fu così che l’Islanda divenne la seconda casa di Albarn, tant’è che, di recente, gli è stata assegnata la prestigiosa cittadinanza dell’isola (devo ancora farci l’abitudine a vederlo su Wikipedia).
Il legame cha ha il nostro caro con questa piccola terra è oggi più intenso che mai, essendo una tana dal caos di un mondo in preda ai deliri di tempi strambi.

“The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows” nasce come un progetto, ispirato dai paesaggi islandesi, che vedeva la collaborazione con un’orchestra e che si sarebbe limitato ad esecuzioni dal vivo. Un tour europeo fu stabilito per i primi mesi del 2020, poi arrivò la parte che, tristemente, conosciamo già  e, così, il suddetto si ritrovò in lockdown a Devon.
In questi giorni passati nella malinconia e nella desolazione, Albarn reimpiegò e ridisegnò i brani per un nuovo disco in chiave solista. A completare l’opera si aggiungeranno, poi, in sala studio le ragguardevoli presenze di Simon Tong (ex chitarrista dei Verve) e dell’arrangiatore (suo collaboratore con i Gorillaz) Mike Smith; gli arpeggi cristallini elettrici del primo e gli squisiti sassofoni del secondo giocheranno un ruolo notevole nelle suggestioni dell’album.

Se si ricorda “Everyday Robots” per il suo caldo minimalismo, allora il seguito verrà  ricordato per le sue intense e dilatate atmosfere. Qui vengono evocati paesaggi sonori di ampio respiro che accolgono elementi ambient, jazz ed elettronici.

La flemma di Brian Eno e la vena ecclettica dei Talk Talk potrebbero aver influenzato Albarn durante il processo di composizione. Tuttavia, si tratta di un disco che non cade nel risentito e comprova la sete dell’ex Blur nel volersi rinnovare senza sosta, offrendo agli ascoltatori, ogni volta, un autentico e stupefacente viaggio sonoro.
Stavolta ci son capitati biglietti di sola andata per un’odissea nordica intrisa di vibrazioni catartiche e caliginose al contempo – permeata da una sensibilità  per la natura che oggi è necessario trasmettere come mai prima d’ora.

Testi pervasi da una pura delicatezza – ispirata proprio dalle poesie di John Clare ““ che trattano di cambiamento, solitudine, rigenerazione, la fragilità  delle nostre vite e della gioventù che vola via.

Il disco si apre con la title track: una letargia opalescente di cinque minuti che, lemme lemme, ti avvolge e ti immerge subito nel viaggio.
Alcuni brani sono ispirati da momenti naturalistici alla quale Albarn ha potuto assistere scrutando fuori dalla finestra della sua casa in Islanda.
“Royal Morning Blue” ““ un brano dal sassofono sfarzoso e dal climax che mozza il fiato ““ è la sensazione, cristallizzata sotto forma di melodia, che trasalì Albarn nell’ammirare la pioggia che leggiadramente si tramuta in neve.
Oppure “Esja” ““ una strumentale dalla drammaticità  cinematografica – dedicata al monte, la sua musa, che il musicista inglese può guatare dalla propria dimora.
Se si parla di brani strumentali, “Esja” non è sola: la frenesia disarmonica di “Combustion” e l’avanguardia saturnina di “Giraffe Trumpet Sea” le fanno buona compagnia.

Preparate i fazzoletti per “Daft Wader”, una carezzevole armonia di pianoforte che sfocia in un turbine sul finale.
Quella che vi sembra una serenata al chiaro di luna, improvvisata da un gruppo jazz in un ristorante con vista sul mare, si chiama “The Darkness Of The Light”.
Dall’Islanda all’Uruguay è un attimo. Con “The Tower Of Montevideo” si entra tra le mura del Palazzo Salvo, un noto edificio di Montevideo – già  presente sulla cover di “Heavy Seas Of Love”. Qui il sassofono e la drum machine svolgono un lavoretto a dir poco squisito.

Tastiere ottantine si sbizzarriscono in “Polaris”, un momento dal pop spumeggiante che farebbe venire la pelle d’oca a qualunque sognatore.
A una stella che possa guidare tutti coloro le cui vite sono stravolte, soprattutto nell’ultimo anno.
L’odissea termina con una meravigliosa aurora boreale, la sconfortata “Particles”. Quali particelle? Quelle che veicolate dalle tempeste solari e che, poi, si scontrano con l’atmosfera creando lo stupefacente fenomeno nei cieli del nord.

Damon Albarn torna a parlarci con la sua musica in un modo calorosamente intimo ed intenso, sgomberando un po’ di nebbia e svelandoci nuovi spiragli.

Buona fortuna, cari lettori, per il cammino alla ricerca della vostra sorgente pura.

Ho attraversato un momento buio mentre scrivevo questo disco, però mi ha portato a credere che può ancora esistere una sorgente pura.

Credit Foto: Linda Brownlee