Compie oggi cinquant’anni tondi il debutto su lunga distanza degli America, se teniamo conto della prima pubblicazione avvenuta nel Regno Unito, dove i Nostri all’epoca erano stanziati.

La gloriosa sigla cui facevano parte sin dalla fondazione gli amici Dewey Bunnell, Gerry Beckley e Dan Peek (tutti e tre cresciuti in Inghilterra, figli di militari statunitensi e madri britanniche) trae il nome proprio dalle origini dei giovani studenti, all’epoca poco più che maggiorenni, ma soprattutto è dettata da una sorta di suggestione mista a nostalgia per una Terra promessa che in realtà  essi conoscevano solo da racconti paterni, letture e, ovviamente, dalla musica.

Nonostante avessero trovato in una sempre più recettiva Londra gli stimoli (e gli incontri giusti, primi fra tutti quelli con il noto musicista Ian Samwell e con Jeff Dexter, grazie ai quali firmeranno con la prestigiosa Warner e produrranno il primo album eponimo) sembravano appunto guardare musicalmente Oltreoceano, trovandosi in ottima sintonia con il sound della West Coast firmato Crosby, Still & Nash.

Pur non possedendo la genialità  e, se vogliamo, nemmeno la profondità  e lo spessore di questi ultimi, infatti, anche gli America prediligono sonorità  per lo più acustiche, incentrate su un morbido folk- rock dalle tinte melodiche assai interessanti, a determinare atmosfere intime e delicate.

Questo si evince già  dalle primissime composizioni del trio, pensiamo alla romantica “I Need You”, ma è indubbio che il successo planetario di questo lavoro si debba ascrivere principalmente alla struggente “A Horse with No Name”, in origine nemmeno inserita nell’album ma felicemente poi ripresa nell’immediata riedizione di pochi mesi seguente, dopo che il brano uscito come singolo divenne nel giro di brevissimo tempo una hit sia in Europa che negli Stati Uniti.

Il traino di questa canzone, divenuta poi un classico senza tempo, permise così all’intero LP di ottenere un vasto riscontro, tanto da raggiungere la prima posizione nella classifica ufficiale di Billboard, dove stazionò oltretutto a lungo, facendo sì che i tre imberbi America diventassero volti assai famigliari, e le loro canzoni notissime.

A ragion del vero, dando a Cesare quel che è di Cesare – e quindi non negando l’influenza e l’importanza della “ballata per eccellenza” della loro intera carriera – occorre ammettere che gli ingredienti per ammiccare al grande pubblico, fino a conquistarlo, c’erano in fondo già  tutti, vista l’immediatezza dell’intera scaletta proposta in questo “America” datato 29 dicembre 1971, e le tematiche trattate, che attingevano per lo più dalla sfera della loro adolescenza, tra slanci emotivi e ricordi di infanzia, con punte di poesia che facevano capolino qua e là , senza tuttavia inoltrarsi in territori arditi e sconosciuti.

Credo sia proprio questa la forza di una band capace di segnare l’epoca dei settanta, fino a diventare essa stessa pietra di paragone per altri gruppi da lì a venire, senza mai smarrire le proprie peculiarità .

I “ragazzi”, ormai prossimi ai settant’anni (Bunnell e Beckley li compiranno nel 2022, mentre Dan Peek, che li aveva abbandonati già  nel 1977, ci ha lasciato prematuramente dieci anni fa), hanno avuto sì un colpo di coda negli anni ottanta (soprattutto con gli ariosi passaggi pop-rock di “You Can Do Magic”) e sono in giro per concerti ancora adesso, ma è innegabile che il meglio lo avessero prodotto proprio con i primi lavori, e per ogni fan del gruppo sarà  facile identificare in uno dei brani inseriti in questo storico debutto il suo preferito.

Da “Riverside”che apre la tracklist, e che già  colpisce per l’assoluta naturalezza degli intrecci vocali, alla più robusta e matura “Sandman” (entrambe interamente composte da Bunnell); dalla placida “Three Roses”alla countryeggiante “Here” (che denota la sagacia con lo strumento di Beckley), passando dalle splendide armonie della già  citata “I Need You”, per non dire della programmatica “Rainy Day” (a firma Dan Peek), della sognante “Never Found the Time” o di una “Clarice” con mood “da cameretta” ante litteram, pare di trovarci d’innanzi a un vero greatest hits e non ai primi titubanti tentativi di ventenni senza un particolare background musicale.

Questo depone sicuramente a favore della bravura e dell’innato talento degli America, a mio avviso spesso sin troppo bistrattati dalla critica e dal music business, solo perchè semplicemente superati nei gusti di un pubblico in continuo movimento, così com’erano le tante istanze del periodo che si riflettevano pure in campo musicale, con l’avvento di nuovi stili, nuovi generi e movimenti.

Bene però hanno fatto loro a rimanere fedeli a se stessi, senza rincorrere mode e umori del momento, dimostrando così in tutto e per tutto un’autenticità  di fondo, che credo gli si debba riconoscere a distanza di cinquant’anni, dopo che a lungo furono etichettati invece come poco originali.

Non sempre si può rincorrere lo spirito del proprio tempo, nè tanto meno è facile definirlo da zero, rivoluzionando così l’intero tessuto sociale e culturale – ci sono riusciti pochi artisti che possiamo tranquillamente elevare al rango di geni (visto che si è parlato molto, a ragione, del documentario “Get Back” di Peter Jackson, valgano i fabulosi Beatles come fulgido esempio) -: a volte è sufficiente solo scrivere belle canzoni per occupare il proprio posticino nella storia, e questo è quello che sono riusciti a fare egregiamente gli America di Dewey Bunnell e Gerry Beckley.

America ““ America
Data di pubblicazione:  29 dicembre 1971
Tracce: 12
Lunghezza: 46:14
Etichetta: Warner Bros. Records
Produttore: Ian Samwell, Jeff Dexter, America

Tracklist
1. Riverside
2. Sandman
3. Three Roses
4. Children
5. A Horse with No Name
6. Here
7. I Need You
8. Rainy Day
9. Never Found the Time
10. Clarice
11. Donkey Jaw
12. Pigeon Song