Un nuovo capitolo arricchisce il canzoniere degli Ovlov ““ interessante quartetto alternative originario del Connecticut ““ che non può (e non deve) passare inosservato. Lo sa bene Steve Hartlett ““ voce principale e chitarrista del gruppo insieme al compagno Morgan Luzzi ““, il quale è capace di regalarci una performance a dir poco encomiabile ““ e con poco spazio per le opinioni personali ““ in neanche 30 minuti di durata complessiva: un terreno difficile su cui decidere di giocare una partita decisiva, perchè ciò vorrebbe dire che ogni traccia dovrebbe corrispondere ad un colpo sicuro a tutti gli effetti, e in un certo senso è esattamente quello che accade.

Le danze di “Buds” ““ fuori per Exploding in Sound Records ““ vengono aperte dalla graffiante “Baby Shea”, brano che si propone di omaggiare lo “Shea Stadium” di Brooklyn, luogo dotato di un forte valore affettivo per il main singer, come rivelato da lui stesso in un’intervista concessa a Flood Magazine. La successiva “Eat More” ““ che rallenta considerevolmente la situazione avviata dal brano precedente ““ ci lascia con una delle migliori parti su chitarra dell’intero disco, per stessa ammissione di Hartlett: l’amore, la malinconia, il rimorso diventano stati d’animo contagiosi ““ capaci di appiccicarsi addosso all’ascoltatore più sensibile ““ e non è certo un caso che questo brano venga descritto dai fan della band come il migliore dell’intera composizione. Difatti, sarà  difficile d’ora in poi toccare i picchi sin qui raggiunti: non ci riusciranno “Land of Steve-O” e “Wishing Well”, nonostante l’innegabile qualità  espressa soprattutto dal secondo; non ci riusciranno “Strokes”, nè l’avvolgente “Cheer Up, Chihiro!” ““ addirittura baciata da un intelligente uso del sax ““, che sicuramente entra tra i migliori momenti di questo “Buds”, il quale decide di chiudersi con una buona “Moron Pt. 2” ed una migliore “Feel the Pain”, quest’ultima ispiratasi ad “Aruarian Dance” di Nujabes, un talentuoso producer giapponese piuttosto apprezzato dalla band.

Il livello (tutto sommato alto) dell’opera si mantiene costante per tutta la sua durata, convertendo in maniera pressochè automatica il lavoro del gruppo originario di Newtown in un prodotto compatto ed affascinante ““ dai contorni innegabilmente slacker-rock ““, saziando definitivamente la fame di chi era alla ricerca di validi elementi alternative, ritrovatisi a flirtare senza troppi indugi con lo shoegaze più sfacciato. Le chitarre elettriche si rivelano per forza di cose ““ ed ancora una volta ““ il più valido alleato della band statunitense, riuscendo a impostare la finezza necessaria per la composizione di brani di pregevole fattura, semplici e funzionali.

Il fattore emotivo depositato nelle liriche ““ fattore che da sempre gioca un ruolo fondamentale nella musica di Hartlett e soci ““ non è un semplice elemento di contorno, al contrario: è il riempitivo perfetto di un’accurata cornice sonora, precisa ed aggraziata. La coesione di fondo di questo nuovo capitolo targato Ovlov è forse l’elemento più significativo di cui tenere conto: è senz’ombra di dubbio grazie ad essa se la riproduzione riesce a risultare piacevole e (apparentemente) priva di passi falsi sin dal primo ascolto. Una coesione che – nel giudizio finale – non deve assolutamente essere confusa con un tanto generale quanto generico “appiattimento” del sound: e con queste premesse, si può sicuramente parlare di un buon prodotto – con piacevoli alti e con bassi per nulla evidenti -, che non esalta più di tanto ma che nemmeno delude, anzi.