50 anni fa. Dinanzi agli occhi increduli di un giovane sub romano due stupendi guerrieri di bronzo decisero, finalmente, di svelare la propria esistenza al mondo, dopo che, per millenni, il loro segreto era stato custodito dal protettivo abbraccio del mar Ionio. In quello stesso anno, oltre ai due misteriosi bronzi di Riace, anche il seme dell’heavy-metal, fino ad allora nascosto nel grembo altrettanto protettivo dell’hard-rock, inizia, lentamente, a germogliare, intraprendendo quel cammino che, attraverso l’abbagliante e dirompente affermazione degli anni Ottanta, tra innesti e contaminazioni, revival e rinascite, arriverà  fino ai nostri giorni.

Gli Hawkwind  salutarono il “’72 con un disco, “Doremi Fasol Latido”, suonato al basso dal futuro leader dei Motorhead Lemmy Kilmister; un disco che mescolava l’hard-rock con sonorità  spaziali di matrice progressive-rock. Le profondità  ignote dell’universo assumevano, però, un aspetto più inquietante, minaccioso e sinistro. La band inglese, infatti, dava vita ad uno space-rock oscuro che metteva, praticamente, fine alle visioni celestiali e suadenti degli hippie, gettando i fragili e indifesi esseri umani in un buco nero di sonorità  sconvolgenti, ossessionate e lisergiche, in una dimensione sconosciuta e profonda che non conteneva nè verità , nè bugie, ma solamente dolore. Quello degli Hawkwind era un cosmo cattivo, una raffigurazione astrale delle ombre, dei demoni e delle creature mostruose che vivevano nel nostro inconscio. Sempre più spesso, intanto, l’unico modo per affrontare queste lande desolate e terrificanti era affidarsi a sostanze allucinogene: non con l’obiettivo di aprire le famose porte della percezione a nuovi e stupefacenti mondi, piuttosto con quello di chiuderle a questi esseri di puro, assoluto , distorto e brutale Male.

E che il 1972 fosse un anno fondamentale per l’heavy-metal è legato anche ai  Wishbone Ash  e al loro album “Argus”. Un disco, accompagnato da una copertina firmata studio Hipgnosis, dal sapore mitologico, che rompe la classica dicotomia chitarra-organo che aveva caratterizzato molte band hard-rock del tempo, proponendo, invece, la presenza di due chitarre in grado di armonizzarsi o alternarsi nella creazione di riff e assoli. Con questa band le atmosfere progressive e hard-rock di riferimento acquistano un alone epico e leggendario, si trasformano in una narrazione favolosa ed apocalittica, nella quale i cieli tremeranno e l’uomo sarà  chiamato ad esser l’unico artefice del proprio destino, a salvarsi oppure dannarsi in base a quelle che saranno le sue scelte future. In un certo senso, il vero profeta, il re di cui attendiamo il ritorno, giace nelle profondità  del nostro stesso spirito. Possiamo essere dei guerrieri, certo; possiamo esaltarci dinanzi alla battaglia, assaporandone profumo e sapore, ma quando tutto sarà  finito, nessuno potrà  considerarsi veramente vincitore, nessuno otterrà  le risposte che desidera, soprattutto se continuerà  a chiederle, invano, dinanzi alle porte sbarrate della Morte.

Un’oscurità  concettuale che si ritrova anche nell’omonimo esordio discografico dei  Blue à–yster Cult, sospesi tra divinità  ancestrali e razze aliene desiderose di invadere ed assoggettare il nostro pianeta. La band americana condensa nelle sue trame hard-rock una visione cruenta e morbosa della realtà . Il mondo è un posto malvagio: Randall Flagg ha una motocicletta ed un giubbotto di pelle nera e sta sfrecciando, veloce, verso sud, lasciando dietro di sè solo altro dolore ed i segni del suo acciaio nella carne e nello spirito delle proprie vittime. Le atmosfere di questo disco si innestano su un infernale passato blueseggiante, mentre evocano il lato più oscuro della nostra umanità , quello che si nutre di paure e attraverso esse tenta di soggiogare e controllare il prossimo. Infatti, non a caso, il 1972 è l’anno nel quale Nixon stravince le elezioni americane e, allo stesso tempo, da inizio, presso l’hotel Watergate di Washington, a quello scandalo che segnerà  la sua fine politica, tra tentativi di insabbiamento e un utilizzo arrogante, sfacciato e improprio del suo potere.

Intanto, sempre nel “’72, arrivò anche il quarto album dei  Black Sabbath, chiamato semplicemente “Vol. 4”, un’altalena di passaggi ipnotici, visionari e lucenti, di chiara matrice psych-rock, che coesistono accanto alla vibrante e suggestiva oscurità  metallica della band inglese. Un album capace di mescolare angoscia e malinconia, rabbia e tristezza; di esprimere un naturale desiderio di cambiamento, ma, allo stesso tempo, il bisogno di non perdere le proprie rassicuranti sicurezze, anche quando esse sono solamente un inutile e dannoso mucchio di plastica, di sentimenti sotto vuoto, di compromessi a buon mercato, di finte libertà . Libertà  colme di debiti, di notti insonni, di attacchi di panico, di deliri di onnipotenza, di comportamenti paranoici, di una diffusa e piacevole insensibilità , mentre, nel frattempo, le grandi compagni di COCA-cola di Los Angeles e ogni altra dannata città  del mondo continuano a fare i loro sporchi e lucrosi affari, trasformando il nostro prezioso tempo in una lunga e alienante era glaciale.

Tempo che, attraverso la memoria ed i ricordi, plasma le nostre molteplici personalità , consentendo a questo cupo e conturbante spettacolo teatrale, che è la nostra stessa esistenza, di andare in scena. Una farsa sfarzosa e violenta di cui restano solamente poche immagini sfocate, estati lontane, qualche ferita, qualche crepa nel muro e soprattutto i nomi di  Alice Cooper  e dei componenti della sua band incisi su di un vecchio banco di scuola. Questa è l’essenza di “School’s Out”, un lavoro che coniuga armonia e humour macabro, che da una consistenza scenografica e visuale all’hard-rock, senza, però, dimenticare i micidiali olocausti che si nascondono nelle nostre, apparentemente tranquille, esistenze, nelle nostre case ordinate, nelle nostre frasi di circostanza, nelle nostre giornate tirate a lucido. Intanto, nel tentativo di eliminare ogni macchia, continuiamo a strofinare, senza accorgerci del dolore, senza accorgerci del sangue, senza accorgerci del male che facciamo a noi stessi e agli altri.

In un’epoca estremamente dinamica come quella degli anni Settanta, in anni che erano caratterizzati da un impetuoso ed impellente fermento sociale, politico e culturale, le barriere erette tra i diversi generi musicali erano qualcosa di esclusivamente accademico e gli  Uriah Heep  ne erano un esempio concreto. Una band capace di alternare, nello stesso disco, con disarmante naturalezza, atmosfere drammatiche e spensierate, mescolando hard-rock e attitudine fantasy, psichedelia oscura e romanticismo flower-power. “Demons And Wizards” è un disco che affonda le sue radici nel passato ancestrale dell’umanità , nei suoi eroi mortali e nelle sue leggende, rivolgendosi, contemporaneamente, al futuro, a quelle domande che, da sempre, spronano gli esseri umani a cercare, a sperimentare, a comprendere, a conoscere, a superare i demoni che si insinuano dentro di noi, nelle nostre paure, nelle nostre insicurezze, nelle nostre passioni più contorte, ossessive e selvagge, facendoci compiere atti ingiusti, violenti, brutali ed aberranti.

Eventi distruttivi di cui, purtroppo, anche il 1972 è pieno: come dimenticare, infatti, l’attacco dei terroristi palestinesi di “Settembre Nero” contro gli inermi atleti israeliani durante le Olimpiadi di Monaco di Baviera? O come non ricordare i sanguinosi eventi del “Bloody Sunday” quando l’esercito britannico, a Derry, in Irlanda Del Nord, sparò contro una folla di manifestanti disarmati?

Non è possibile farlo, perchè alcune ferite debbono continuare a fare male, anche dopo anni, per sempre. Ed è meglio così. Soprattutto quando ci rammentano quanto possiamo essere vili, ottusi e cattivi. Fortunatamente nell’animo umano c’è anche altro: c’è la capacità  di cogliere la bellezza, anche in un evento distruttivo come può essere un incendio. Dal fumo che si riflette sulla superficie del lago di Ginevra durante un tramonto nasce, infatti, uno dei brani più famosi e suonati della storia del rock. Brano incluso in un album ormai leggendario, “Machine Head” dei  Deep Purple, uno straordinario e luminoso scorcio di futuro, che, tra assoli energici e tecnica sopraffina, concilia la malinconia del blues, l’energia dell’hard-rock e la forza impetuosa dell’heavy-metal, riuscendo ad essere un album eternamente attuale, la casa perfetta di ogni appassionato di musica rock, il luogo nel quale, prima o poi, terminato il faticoso viaggio, tra quei meandri inesplorati dello spazio, che adesso non ci fanno più paura, tutti desideriamo fare ritorno.

Nessuna missione, per quanto possa apparire, ai nostri occhi, un atto di resistenza, d’onore o di impegno, può durare in eterno. Arriverà  il momento di abbassare la guardia e sentirsi in pace con sè stessi e con il mondo circostante, senza che ciò possa essere considerata una debolezza, un peccato o un atto verso il quale dover provare vergogna. Un po’, forse, come accadde a Shoichi Yokoi, militare giapponese, il quale, proprio nel 1972, venne trovato in una foresta dell’isola di Guam nella quale si era rifugiato quando la Seconda Guerra Mondiale era ancora in corso e nella quale, avendo tradito la fiducia del suo popolo, credeva di dover morire.