Quel logorante, estenuante, lunghissimo tour in giro per il globo (“20 Years Of Placebo”) per celebrare una gloriosa carriera ventennale  – racchiusa nella raccolta “A Place For Us To Dream”  alla quale ha fatto seguito l’EP  “Life’s What You Make It”– stava svuotando di idee l’ormai duo  Molko/Olsdal (il batterista Steve Forrest ha abbandonato nel 2015) il quale, proprio per evitare una spiacevole deriva, aveva deciso di imprimere un nuovo corso, una nuova direzione che facesse uscire la band da quella comfort zone nella quale si stava probabilmente adagiando.

“Never Let Me Go” giunge dopo quasi una decade dal loro ultimo album in studio, “Loud Like Love” del 2013, e ritrova i Placebo decisamente ispirati, rinvigoriti che hanno riversato il loro indubbio stile nei tredici episodi che raccontano le frammentate complessità  del genere umano negli innumerevoli aspetti della vita.

In questa ottava prova sulla lunga distanza si concentra, a mio avviso, tutto il meglio uscito dai precedenti lavori della formazione britannica che si amalgamano tra loro in un crescendo di sperimentazioni e percorsi evolutivi senza tuttavia intaccare il tratto caratteristico della band, ovvero quell’inconfondibile miscela di glam-punk-rock contaminata da un insistente elettronica. Lo stesso Molko aveva ingaggiato una sorta di sfida personale con i sintetizzatori deciso a riversarli in ogni brano; questo ha sicuramente  segnato la produzione dell’intero album – affidata ad Adam Noble (Biffy Clyro, Liam Gallagher, Nothing But Thieves) – dove, appunto, le incursioni elettroniche impattano in maniera netta sui muri di un sound distorto e “rarefatto”, sin dalle prime glaciali note cyber-industrial dell’opener “Forever Chemicals”, proprio una delle più sperimentali del lavoro.

Ebbene, mentre intorno al manifesto di ribellione contenuto nel primo singolo “Beautiful James” si assiste ad un vorticoso trionfo di synth che avvolgono il brano rendendolo irresistibilmente earworm, in “Hugz” – ispirata da una battuta del programma televisivo britannico “Doctor Who” nel quale, riguardo alla richiesta di un abbraccio, l’attore Peter Capaldi disse  “è solo un modo per nascondere la tua faccia” – le sonorità  esplodono in maniera violenta con le chitarre distorte di Molko, soprattutto nell’epilogo. Stesso territorio solcano i pesanti e taglienti riff della travolgente “Twin demons” e di “Chemtrails” con l’inizio delle pelli in backbeat che conducono al consueto “ronzio” dei sintetizzatori, mentre le atmosfere assumono tratti accorati nella psichedelica ballad di pianoforte “This Is What You Wanted” e nella successiva “Went Missing”, dove lo spokenword di Molko prende vita nelle parole “Secret destroyers keep away”.

Dal punto di vista della scrittura, la penna traccia con la consueta linea claustrofobica e ossessiva tematiche attuali e sensibili come nelle oscure e opprimenti note di una bellissima “Surrounded By Spies” – dove si affronta senza orpelli “l’erosione della libertà  civile” nella quale la nostra privacy in quest’era tecnologica è messa costantemente a dura prova – che fanno da contraltare alle esuberanti note pop-rock   di “Try Better Next Time”, nella quale si snocciola il tema del “maltrattamento” ambientale messo in atto dall’uomo (“It’s a gas, it’s a party/On this planet of flakes/Somebody take a picture/Before it’s too late”) tuttavia con una visione speranzosa e ottimistica per il futuro, che deve stimolare al cambiamento (“Wake up/Wake up/Try better next time…/Cry better next time”).

Il pathos che l’album suscita è tangibile e nella sua poliedricità  si riverbera una toccante intensità  un po’ ovunque raggiungendo il suo apice nello struggente mid-tempo di “Happy Birthday In The Sky”, un crudo ma al tempo stesso commovente “epitaffio” con un refrain indelebile: “I want my medicine/Give me my medicine”.

Niente è lasciato al caso in “Never Let Me Go” dove si percepisce in ogni anfratto di ogni singolo brano una cura dei dettagli – anche nella scelta della sequenza della tracklist – che segue ad altrettante esecuzioni accurate – che riscono a non distrarre l’ascolto sebbene un generoso minutaggio – mentre nel mezzo si staglia la voce nasale di Molko, che il tempo non ha intaccato la sua peculiarità , ponendo il sigillo di fabbrica alle produzioni Placebo.  

Ad un certo punto, le sonorità  meste e severe dapprima si concedono un pausa nel trionfo di archi in “The Prodigal” per poi affogare in una ruffiana ed accattivante linea di basso di matrice pop in “Sad White Reggae”. La degna conclusione del full-length viene concessa all’oscuro romanticismo di “Fix Yourself” che esala note tristi di Cure memoria.

Il ritorno di una band iconica come i Placebo era da tempo atteso e, a parer mio, le aspettative sono state più che soddisfatte. Non troveremo una nuova “Without you i’m nothing” o una nuova “Bruise Pristine” – che forse oggi nemmeno   avrebbero senso – bensì una pletora di sperimentazioni ed “electro-inni” assolutamente riusciti, che rivisitano in chiave moderna il paradigmatico sound di una band ritrovata e rinnovata ma che ha saputo sempre mantenere la sua potente e inattaccabile identità . E non è poco.

Credit Foto: Mads Perch