32 anni senza Loop, mitica band inglese con soli tre album all’attivo sfornati in quel magma caotico e scintillante che diede vita allo shoegaze d’albione con dentro tra gli altri Ride, Slowdive, MBV, dai quali si distinguevano per un approccio molto più psichedelico e space rock, di provenienza fine sixties.
Un nomen omen che dopo tre decadi torna a riporoporsi inossidabile con questo “Sonancy”, un’assonanza sonora ancora granitica che getta un ponte meraviglioso su forse uno degli ultimi genuini fermenti che hanno segnato una generazione indie che da lì in poi ha preso sempre più definizione e che ci ritroviamo qui nel 2022 ancora intatto, con 11 canzoni immarcescibili, con un senso di stupore di fronte ad operazioni come queste che raramente mantengono inalterati i ricordi dei fasti passati, mentre in questo caso bastano pochissimi secondi di ascolto, con quei tratti che ti affondano immediatamente dentro un immaginario di luci al neon, pensieri lisergici, sogni disinibiti.
Prende forma lungo questo album un nuovo viaggio siderale fra mondi lontani from the outer space (“Axion”), terre dionisiache (“Eolion”), dove si bilancia equamente una tensione psichedelica primordiale, che vede recuperare le parti tribali molto primi Pink Floyd con l’attitudine marziale col motorik spedito nelle canzoni più dirette ed incisive, musica nel complesso come luogo in cui perdersi e abbandonarsi, musica totalmente e giustamente evasiva, necessaria, senza messaggi che non vadano oltre la solidità del suono.
A permeare il tutto ci pensa una produzione fermamente ancorata in modo pedissequo a quella di 30 anni fa e forse ci si poteva aspettare di più da questo punto di vista, ma non ci sono neanche molte novità a supporto dei pochi strumenti utilizzati, sostanzialmente chitarre in loop (ops!) con raddoppi, voce super filtrata, effetti stereo ipnotici e vorticosi come se la band avesse lavorato di fino per il nuovo imminente quarto album, solo che ad un certo punto i Loop è come se si fossero ibernati, dentro scrigni impenetrabili , svegliandosi con una selezionata data di apertura della navicella fissata in questo 2022, sentendosi ora a proprio agio per riproporci questi suoni che vanno dritto al sodo, 4 tardi freaks che hanno fiutato la nuova aria per farci fluttuare ed appassionare come prima della loro era glaciale, mantenendo e quasi limando quei basilari elementi che contraddistinguono la forza e la compattezza inarrivabile della loro proposta da 30 anni: batteria a ritmo di marcia, inossidabile, a volte come in un accompagnamento rituale, rasoiate elettriche sempre in pienissimo primo piano, la voce in riverbero al limite del comprensibile, riflesso di un canto perduto quasi come sequenza di trasmissione satellitare, effetti antichi da soundcheck lunari figli di una psichedelia patogena , il tutto con un tiro da prime movers alle prese con effetti eccessivi di qualche sostanza mista a dosi malsane di coca cola.
E’ come se suonassero ancora per adolescenti post grunge, quando oggi al massimo questi ventenni d’oggi non saprebbero che farsene della potenza di queste canzoni, dell’impeto urgente della doppietta “Halo” e “Fermion”, strepitose accelerazioni post metal alla Helmet, colonne sonore come monoliti piovuti appunto da un passato glorioso, veri inni strabordanti energia passione e ritualità mai assopite, delle bombe per i baby boomers peraltro, ancora qui a divertirsi con questa musica mai vinta, tenace, che ridesta e ci porta dentro l’Olimpo, a vedere una nuova “Aurora” sempre uguale a se stessa, uno spazio vissuto, un orizzonte boreale delineato dal beat malato di “Sonancy”.
Credit Foto: Simon Holliday