Conosco ormai da qualche anno Antonio, e sin dal primo ascolto delle sue cose mi dissi “ok, è un giusto“. Ma cosa significa, in questi tempi di “incomprensione” e perdita di riferimenti, la parola “giusto”?

Beh, per uno che, come me, ha un’idea di giustizia legata sopratutto alla preservazione di ciò che vale e lotta per sopravvivere in un mondo in cui mediocrità  e grigiore stanno spegnendo colori ed entusiasmo, “giusto” è certamente colui che, con stoica furia resistente, non si limita a proteggere il giardino dalla rovina del presente, ma accetta l’idea che le intemperie della contemporaneità  possano servire a temprare i fiori e i frutti del proprio orto.

Nel caso di Aigì, quei fiori hanno un profumo che rimanda a terre lontane, almeno nella memoria, fatte di poesia, immagini giuste e tempi di comprensione che spesso sfuggono all’immediatezza dell’istante, costringendo l’ascoltatore a premere play più e più volte, alla ricerca di sfumature e significati reconditi annidati nella profondità  della terra, con radici ben radicate in una tradizione autorale che necessita di riaggiornare i propri codici e linguaggi per scongiurare il proprio tracollo storico.

E allora Antonio, da bravo stratega, ha capito che l’unico modo per non vivere con la paura della tempesta è accettarla dentro di sè, farsi “indurire” e allo stesso tempo “elasticizzare” dalle intemperie e mescolare le carte, per restituire alla storia un nuovo mazzo che, allo stesso tempo, porti il profumo dell’antico.

Ciao Aigì, benvenuto su Indie For Bunnies. Allora, ti abbiamo lasciato oramai un anno fa con “Piazzale Michelangelo”, il tuo secondo singolo, e la domanda sorge spontanea: che è successo in questi lunghi mesi?
Ciao Indie For Bunnies! Diciamo che sono stati mesi di stallo, ma soprattutto di riflessione. Ho lavorato tanto, cercando di ricercare un nuovo sound, una nuova riconoscibilità , un’identità  più definita insomma. Ma il grosso del lavoro è stato con me stesso, quello più faticoso. “Io che non” parla anche di questa fatica.

Il tuo nuovo singolo, “Io che non”, sembra aver segnato una differenza di passo con il passato: il sound, di certo, dimostra una maturazione ben precisa nella direzione di un linguaggio contaminato, più lontano dall’ItPop. C’è stata una ricerca stilistica precisa, o tutto è venuto molto naturale?
La ricerca è stata sul lungo periodo, non per questo brano in particolare. Questo pezzo si inserisce all’interno di un puzzle più grande. è solo l’espressione naturale dello sviluppo che ho condotto e subito in questi ultimi mesi.

Il testo, poi, sembra perfettamente capace di rendere quella sensazione di “immobilità ” che tutti, in questi anni, abbiamo provato. Come si esce dal “congelamento”, da quella prigionia tra due estremi che sembri fotografare nel tuo nuovo singolo?
Credo che il fare sia molto importante in questi casi. Anche se non c’è una direzione, l’azione più decisiva è quella di partire. Ovviamente tutto questo deve essere accompagnato da un lavoro meticoloso di introspezione e autoconsapevolezza.

Ti va di svelarci qualche chicca riguardo alla produzione del brano? Come ti sei approcciato all’arrangiamento?
Ho lavorato alla prod con Octave, amico e ormai produttore di fiducia. Diciamo che l’intenzione era quella di non vestirlo troppo, di lasciarlo un po’ com’è nato, piano e voce, trasparente. è stata una bella sfida proprio per questo motivo. Poche percussioni, piano, un sub che desse profondità . Poi il tocco da maestro lo ha dato Ottavio con la svolta finale, ma non vi spoilero niente.

Ecco, torniamo nuovamente sulla tua evoluzione. Da un linguaggio più mainstream, sei passato a forme espressive che contaminano fra loro mondi diversi, come la canzone d’autore ed accenni di trap. Quanto credi nella contaminazione, e quale pensi sia oggi il modo migliore per permettere al cantautorato di “sopravvivere”?
Diciamo che il mio non è semplicemente l’istinto di sopravvivenza di un genere, quello del cantautorato, (ahimè!) in leggera fase di declino. La contaminazione di cui “Io che non” è testimone si sposa con l’intento di dare una nuova veste alla musica d’autore, di proporre un cantautorato 2.0, insomma, che goda delle influenze della musica mainstream.

Dacci tre consigli d’ascolto, a patto che siano emergenti italiani.
Direi Dandra, Corha e Pecci.