A quattro anni di distanza dall’uscita dell’ultimo lavoro degli Slaves, è finalmente arrivata l’ora di mettere le mani sull’atteso esordio solista di Isaac Holman. Un album difficile e nato con lentezza, frutto di un periodo estremamente travagliato e doloroso per un artista che, ancora oggi, si trova alle prese con alcuni problemi di salute mentale alquanto debilitanti.

Holman ““ che, per l’occasione, ha deciso di adottare il nome d’arte Baby Dave ““ affronta la non semplice sfida del debutto indipendente (in tutti i sensi: il disco è autoprodotto) affidandosi ai preziosissimi consigli di un maestro con la M maiuscola. Sto parlando nientepopodimeno che di Damon Albarn, coproduttore e polistrumentista per una buona metà  dei dodici brani di “Monkey Brain”.

L’impronta del frontman dei Blur, seppur percepibile in maniera definita, non è mai invadente. I suoni minimalisti e l’estetica elettronica che fanno da spina dorsale a tutto l’album ricordano da vicino alcune produzioni dei Gorillaz, il popolarissimo progetto musicale/cartoonesco di Albarn che ha recentemente festeggiato i vent’anni di attività .

L’ampio impiego di drum machine, campionamenti e synth (più volgarmente potremmo chiamarli pianole, considerando la resa sonora) cancella quasi totalmente lo spirito incazzato e focoso che ha fatto le fortune degli Slaves. Delle vecchie sfuriate garage e punk rock non vi è traccia: l’Isaac Holman ““ anzi, il Baby Dave ““ di “Monkey Brain” è un interprete maturo e riflessivo, che scava nelle profondità  di un electropop basilare ma squisitamente melodico e di un hip hop dal gusto alternativo e dallo spiccato accento cockney per far emergere, in testi intimi e talvolta sofferti, le tante e tante difficoltà  di un giovane uomo alla ricerca di un po’ di calma.

I toni quieti e quasi rilassanti di “Stupid Mouth”, “Robert”, “ASMR”, “Don’t Ever Change” e “Monkey Brain” valgono più di mille parole: l’unico vero desiderio di Holman è vivere in pace e gustarsi i piccoli piaceri della vita ““ come l’amato giardinaggio, glorificato nel non fondamentale collage di voci e decespugliatori che porta il titolo di “I Love Gardening”. La noia la fa padrona? Fortunatamente no: la frizzantezza e la leggerezza di “Too Shy For Tennis”, “Beautiful Princess”, “Washing Machine” e “Clarence’s Dead Dad” infondono vivacità  a un disco molto gradevole ma un po’ acerbo.