Alla seconda prova sulla lunga distanza , il progetto Nu Genea facente capo a Massimo Di Lena e Lucio Aquilina affina il tiro e continua a fare centro, proponendo una variabile musicale geograficamente più estesa rispetto all’esordio di “Nuova Napoli” senza però allontanarsi troppo dal punto di partenza, come un boomerang che magneticamente torna indietro più volte nella casa natale partenopea.
Già il titolo e l’estiva copertina danno chiara evidenza dell’immaginario di un luogo di commistione in cui far rientrare le diverse combinazioni che popolano l’album , un bar affacciato sul mare vesuviano che filtra fisiologicamente le varie influenze che lo agitano: tradotto, non solo la Napoli anni 70 dell’esplosione della verve funk-progressive,r&b , per dire dei vari noti (Pino Daniele, Napoli Centrale, Esposito, etc, etc), ma l’inserimento delle contaminazioni allargate, cosanguigne, si direbbe un patto di sangue marino con l’afro beat, tanto qui (una su tutte “Rire”), sentori orientaleggianti (“Tienatè”), il magrheb quasi lounge (“Gelbi”), il tutto amalgamato al modo Nu Genea con questi ritmi bassi, non lenti, ma neanche velocissimi che danno omogeneità al disco, quasi una patina alle canzoni, di un piacere che ispira movimento ma in un mood rilassato.
Il che rimane come l’elemento distintivo proprio del duo, che traccia una scia di un sentimento personale, di un album che in verità inizia un pò moscio con la title track, che di fatto serve da introduzione per ribadire la famigliarità dei suoni e dell’ambito delle musiche che da lì a seguire si ascolteranno, ma che poi sfodera dei pezzi da ’90 come la già nota “Marecchià ” o “Tienatà “, dove le interpretazioni femminili danno una scossa di ulteriore visceralità ai brani, oppure la lirica e commovente “Vesuvio”, una specie di standard stile anni 70 partenopeo magistralmente virato in una samba dai sentori caraibici, con questo coro di bambini si presume, con una melodia da tormentone classico che ti si imprime come proprio le migliori canzoni napoletane.
Se ne esce con una sensazione di allegria, che ascolto dopo ascolto si fa sempre più presente, una contagiosità progressiva con la melodia tipica del golfo che conquista, come ci si stampassero addosso delle cantilene, che riascoltate ogni giorno come una medicina, ti fanno entrare nel giusto feeling con queste giornate assolate in cui forse la semplice frequentazione di queste note potrebbe essere del tutto sufficiente a riempire le ore. Ed è questo un pò il segreto paradossale, ma neanche più di tanto, di questi due emigrati della musica, la capacità di coniugare l’aspetto ludico quasi terapeutico delle canzoni, il sentimento, la leggerezza pur lirica con la fortissima attenzione al dettaglio, tipica del loro mestiere da dj del collezionismo di ricerca di suoni antichi ai più non noti, come se questa meticolosità nella scoperta di qualcosa di già prodotto permettesse a questa musica riscoperta di ritrovare vitalità in queste nuove composizioni, che in effetti trasudano tradizione in un contesto moderno e contestualizzato. Gran parte di questo effetto è possibile che i due se lo facciano derivare dalle intense esibizioni dal vivo, un concentrato di effervescenza e adrenalina come pochi set in Italia, dove ancor di più che in studio questo flusso uniforme di frequenze di un funk/lounge dilatato scorrono per un paio di ore con una maestria che solo l’esperienza e la passione certificata di questi due appassionati può fa ricreare.
Su “Bar Mediterraneo” invece l’approccio è più meticoloso, si introducono alla perfezione strumenti come il sax alla Senese di “Rire”, gli archi digitali egiziani di “Tienatè”, in generale un largo uso di tastiere e synth marcato ma mai fastidioso, una batteria che segue senza mai copiare la grande lezione di Tony Allen, vero ispiratore sotterraneo dell’intero disco, forgiando un’operazione di modernariato del tutto riuscita e vitale, che come impostazione, al di là del genere, assomiglia un pò al lavoro che hanno fatto gli Air col lounge tout court o anche i Daft Punk in “Random Access Memories” con la dance. Qui fondamentale è anche la localizzazione, Napoli, un qualche cosa che appartiene ai sapori e al fare la vita che rimane solo in quel mondo lì, o forse a tutto il Sud del mondo, uno state of mind, dove chi vuole vede serenità , basta entrarci e ridere.
“Rire, rire, rire
Rire appriesso a me
Provando ad evitare l’abitudine
Cerchi ancora cerchi una serenità
Ma si chiagn, fott e chiagn
Comm a fai a truvà ?
O chiar int a stu scur
Sai che arriverà
Si nun o vide, vide, vide
Che ce pozz fa?”