Aliperti, a mio parere, è uno dei talenti più fulgidi della nuova generazione autorale; stiamo parlando di una penna sicura, tanto nell'”incidere” le carni quanto nel “ricucirle” con il piglio chirurgico che è proprio solo dei taumaturgi, quelli veri: nell’era in cui ogni parola vale l’altra perchè diseducati, come emittenti e come destinatari, a darvi un giusto valore, il talento di Formica Dischi mette in piedi una tracklist densa fatta di piccoli istanti rubati alla luce, e impressi nel giro di danze di un album di debutto che mescola i ricordi con il presente, l’eternità  con la fugacità  dell’istante, la musica con la fotografia.

Ecco perchè, per una redazione di indomabili scrutatori delle profondità  come la nostra, era impossibile resistere alla tentazione di fare qualche domanda ad Aliperti sulla sua “Camera Oscura”: quel che n’è venuto fuori è un bel simposio dall’alto livello di intellettualismo radical chic; quello che, insomma, per anni ci hanno voluto convincere essere una “posa” da pseudo-pensatori, e che oggi invece testimonia la cifra di una resistenza fatta di letture, musei e risacca intellettuale, per sopravvivere alle finte maree di una contemporaneità  sempre più stagnante.

“Camera Oscura”, un titolo che subito richiama ad un mondo fatto di istantanee che, in effetti, compongono la visione “familiare” del tuo disco d’esordio. Insomma, “Camera Oscura” lo vedi più come un album di canzoni o come un album di fotografie in musica?
Effettivamente questo album prende significato nell’unione delle due cose. Spesso infatti mi piace definirlo come un disco di canzoni da guardare o di fotografie da ascoltare.

Leviamoci subito questa curiosità: il tuo percorso, è cominciato tempo fa, e nei mesi hai pubblicato numerosi singoli, collegati dalla stessa scelta di copertine fotografiche in stile “novanta”. Oggi, pubblichi “Camera Oscura”, e sembra che tutto raggiunga una quadratura: questo disco è esattamente come lo pensavi fin dall’inizio, oppure il “concept” fotografico è venuto fuori da solo, quasi per caso?
Io ho deciso di raccogliere questi dieci pezzi in un album in un momento mi cui tutti questi pezzi erano già pronti e durante la loro composizione non ho mai preso a riferimento un’idea di album che collegasse queste canzoni. In un secondo momento è nata l’esigenza di pubblicare un progetto più completo, quindi dopo aver auto analizzato la mia scrittura e ricercato un filo rosso che unisse il tutto, sono arrivato al concept della fotografia che in qualche modo sembrava nascondersi fin dall’inizio dietro a ogni brano che poi ha preso parte a “Camera Oscura”.

Che rapporto hai con la fotografia? Ci sono delle assonanze, per te, fra il “fotografare” e lo “scrivere canzoni”?
Io non sono un appassionato della fotografia in senso tecnico o strettamente artistico, mi sono innamorato del significato che un pugno di Pixels o ancora meglio un pezzo di carta può assumere a seconda dell’occhio che lo guarda.
Mi affascina il rapporto tra persona e fotografia per il ruolo che quest’ultima ha nel farci rivivere una parte del nostro passato.
Scrivere canzoni in qualche modo può avere un ruolo simile, non che debba essere l’ambizione di un compositore, però io trovo della poesia nel riuscire a immergersi anche a livello visivo nei testi delle canzoni mentre i suoni spingono le emozioni a riaffiorare.

“Sonno” è forse uno dei brani più delicati del disco, e mi piacerebbe cominciare da qui per raccontarci “Camera Oscura”: oggi i brani spesso peccano di “sovra- produzione” mentre tu hai intelaiato una canzone che cresce dal basso, con calma. Secondo te, cosa serve ad una canzone per “restare in piedi”? E, riguardo al brano, quali sono le cose che, oggi, ti fanno “spaccare le cose”?
Le canzoni possono rimanere in piedi per tanti motivi, per esempio se sono vere e sentite, alcune canzoni funzionano chitarra e voce e magari con pessima qualità audio perché arrivano alla pancia senza vie di mezzo. Altre canzoni colpiscono o addirittura emozionano per il perfetto incastro tra una composizione armonica e melodica orecchiabile e una produzione coerente e dinamica.
Ad oggi mi viene voglia di spaccare tutto quando mi sento ingabbiato in certe circostanze. L’incomprensione, l’ottusità e la sensazione di avere binari prefissati che corrispondono a ciò che è giusto in assoluto sono cose che mi mettono ansia e spesso l’ansia mi porta al nervosismo. Alla fine però ultimamente non sto spaccando le cose così spesso.

Hai deciso poi di dare un nome inequivocabile ad “Elisa”, un altro dei brani più interessanti di “Camera Oscura”. Come nasce la canzone?
Nasce in una stanza molto grande a casa di mia nonna dove spesso mi mettevo a comporre per non disturbare gli altri in casa. Ricordo di aver preso la chitarra elettrica e di averla conclusa piuttosto velocemente nell’arco della serata, cosa che non mi succede praticamente mai. E’ un brano che è uscito dalla pancia e rappresenta il mio tentativo di palare di qualcosa che ha una pluridimensionalità. Spesso le persone pensano che sia essenzialmente una canzone d’amore, ma in realtà io parlo di dipendenze in senso lato, che siano da droghe che ti stringono la gola, dal gioco che ti consuma o da relazioni tossiche che ti allontanano dal mondo e da te stesso.

“Zaino”, invece, riporta i toni su un it-pop che convince fin da primo ascolta, e ti fa venire voglia di ascoltare tutto ad un fiato l’intero disco. Che rapporto hai con la “musica contemporanea”? Quali sono gli artisti che più ti affascinano, fra le nuove leve?
Apprezzo molto chi cerca una dimensione originale in quello che scrive come per esempio Giuse TheLizia, un cantautore che secondo me farà molta strada. Se dovessi invece dirti uno degli artisti stranieri che sto ascoltando di più ti direi Dayglow, adoro il suo sound evocativo.

Salutiamoci con un consiglio: daccelo tu, su quello che vuoi tu.
Il mio consiglio è di ascoltare, almeno per le prime volte, le tracce dei dischi nell’ordine che è proposto dagli artisti.