Questa recensione parte da una ventosa nottata al Primavera Sound di fine primo decennio 2000, non c’erano ancora i mega main stage odierni ma una zona con ghiaino e appunto polvere alzata dal vento. Gli Oneida ad una certa partono indisturbati, in questo scenario visivo dall’atmosfera torbida affine a ciò che da lì in poi si sarebbe ascoltato, tremendamente affilati con una musica tagliente, apparentemente caotica e fluente nel suo magma ma con una compattezza ed una forza d’urto che trasportava i pochi presenti in viaggi interstellari, una performance di rara intensità  capace di interpretare decenni di furia rock con le caratteristiche dell’approccio indie contemporaneo.

Tali sensazioni si possono trasportare 20 anni dopo pari pari in questa fine estate 2022 dopo l’ascolto di “Success”, notevole ritorno alle origini del gruppo di New York, che abbandonate le prove sperimentali delle ultime produzioni torna al solido (“Solid”), visto ormai che l’apparentamento col successo non rientra più nei propositi della band, se non nell’autoironico titolo, si immagina.

Questo nuovo album contiene quanto di più concreto gli Oneida abbiano mai prodotto, con quel miglioramento progressivo che solo coloro che suonano da tanto tempo insieme possono raggiungere, beninteso rimanendo nel campo di una certa libertà  all’interno del genere, il che rimane forse il più valido motivo per cui si continuano ancora ad amare dei fricchettoni come questi, più delle svolte fuori luogo o appunto delle evanescenti digressioni creative: qui ci sono un pugno di canzoni che a volte prendono i Velvet finali più rumorosi (“Beat me to the punch”, “Opportunities”,”Rotten”) inquinandoli con del fuzz acido e malato, o raddoppiando le chitarre con rapidi cambi secchi e concisi, facendo deflagare le canzoni come forse neanche le migliori band di Lou Reed avrebbero saputo fare.

Altrove, ed è la parte decisamente più interessante dell’album, prevale la marea bassa e lunga del kraut in stupende mini suite come “Low tide” appunto, la superba “Paralyzed” e la finale “Solid” dove lo spettro dei Can affiora spesso ma più come come impostazione, rimanendo la band di “Romance” ancorata su un ritmo decisamente più clustrofobico e metropolitano, con drumming scoppiettante ed inaspettate code di un jazz lisergico che ricordano quello del “Bitches Brew” di Davis, piuttosto che con acidissime parti quasi sullo stile Sleep: in questi brani si rivela tutta la gran maestria di questa band, totalmente libera di dare sfogo alla magia delle session infuocate, che vivono del presente degli strumenti, dell’amalgama dei corpo musicale che si fa flusso, dentro un vortice rumoroso che altera ulteriormente l’effetto stordente.

“Success” non è altro che un omaggio senza indulgenze o referenze ad uno spirito generativo di un rock chitarristico che non lascia indifferenti,   che addensa una moltitudine di colori energetici in poche trame, un omaggio ad ad un gusto noise segnato da intarsi fra metronome linee di   basso, una batteria ginnica e dalla rullata facile, da chitarre sempre al centro, raddoppiate, fuzz, acide  con assoli lancinanti e vivi, da ascoltare e riascoltare in quei momenti in cui l’umore inspiegabilmente scivola sotto i tacchi e ci vuole una scossa da fuori per accendere l’immaginario.