Figura singolare all’interno del cantautorato statunitense, Cass Mc Combs continua anche con questo suo decimo album a sovrapporre le dinamiche personali di viaggio e indipendenza territoriale con la sua produzione musicale, sempre lontana dai clichè e capace di confondersi, qui forse più che in passato, con diversi generi senza mai invischiarsi piuttosto che abbracciare uno stile unico ed uniforme.

Semmai, da sempre la capacità  di McCombs è sempre stata quella di ripetere ad ogni uscita la sensazione della scoperta di qualcosa di nuovo, rimanendo come autore un pò fuori dalle sue canzoni, come se ci fosse un distacco, molto apprezzabile, dal contesto musicale appunto di genere rispetto semplicemente alla liriche, al messaggio del testo, spesso anche al concetto stesso di brano, che non è mai stato quello classico strofa-refrain-strofa, dalle parti del nostro.

In “Heartmind”, già  dal primo ascolto si percepisce invece che la zattera alla deriva fotografata nella metaforica copertina non voglia poi così tanto lasciarsi andare a lidi sconosciuti o mutevoli, concentrandosi l’album, specialmente nella sua parte centrale, in semplici ed orecchiabili ballate pop (“Karaoke”, “New Earth”, “Krakatau”) che ammiccano a quel melodico intenso ma cantabile che ha fatto ad esempio la fortuna del nostro Sinigallia, intervallate da ballads della tradizione USA, le profonde e dense “Unproud Warrior” e “Blue blue band”: in questa parte dell’album McCombs sfodera un’idea per nulla fastidiosa di semplicità , con canzoni che avrebbe potuto scrivere 20 anni fa e che forse riuscirà  ancora a riproporci nelle sue prossime fortune, se questa vena melodica lo corteggerà  ancora, se forse per un pò il senso della stanzialità  farà  di nuovo breccia.

“Heartmind” si fa preferire, a dire il vero però, quando si preme l’acceleratore sui ritmi un pò più serrati, come la quasi Wilco iniziale “Music is blue”, forse azzardata per il livello vocale non proprio nelle corde o “Belong to heaven”, la migliore del gruppo, rock leggero on the road 100% USA per palati viaggiatori, mentre la finale titletrack rasenta fascinosi livelli di alt pop, bellissima nel suo suo fluire strumentale quasi world, impalpabile ed intensa come le cose migliori   del suo autore.

Un album  classicamente definibile di transizione, one step up, two steps back o viceversa, di un artista comunque in costante movimento, che forse per la prima volta si   è concesso della prevedibilità , che può anche non nuocere.

Photo Credit: Ebru Yildiz