Voglio iniziare questa piccola recensione riprendendo, in un’interpretazione forse un po’ troppo libera e naif, la presentazione fatta da Al Doyle per introdurre noi ascoltatori al meraviglioso mondo di “Freakout/Release”, l’ottavo album degli Hot Chip. Per il polistrumentista londinese, che spesso troviamo alla chitarra o dietro le tastiere, le undici canzoni racchiuse nel nuovo disco della band britannica sono così potenti dal punto di vista emozionale da essere capaci di reindirizzare tutte quelle ansie e paure che ci attanagliano nella vita quotidiana verso un ampio e non meglio specificato sentimento di positività .

La dance pop di qualità , quindi, può far sbiadire qualsiasi orrore o tormento, incanalandolo in un’euforia liberatoria e sfrenata che, nelle mani di un gruppo intelligente come gli Hot Chip, è in grado di trasformarsi in un qualcosa di estremamente costruttivo.

Messa in questi termini ““ che, mi rendo conto, sarebbero indegni anche del peggior blog di frasi motivazionali ““ potreste credere che “Freakout/Release” altro non è che un’accozzaglia di banalità  e frivolezze in salsa synthpop. E invece è un disco stimolante e vivace che, pur senza scosse di genialità  o trovate innovative, si fa apprezzare dal primo all’ultimo minuto.

La partenza è letteralmente elettrizzante, con l’irresistibile passo funk di una “Down” tanto semplice e diretta quanto interessante nel suo volersi proporre come figlia moderna della post-disco. I livelli restano alti anche nella spensierata “Eleanor”, un inno alla leggerezza e alla felicità  totalmente sintetico, e nella robotica title track, probabilmente la canzone più ruvida e “cattiva” dell’album.

Una piccola goccia di negatività  in un oceano di buoni sentimenti, segnato dall’evidente e mai celata influenza dei Pet Shop Boys (“Broken”, “Time”) ma soprattutto dall’incontrollabile desiderio degli Hot Chip di mantenere alto il coinvolgimento dell’ascoltatore, sballottato in una girandola di emozioni forti perchè contaminate (vedi la new wave imbastardita dal funk di “Hard To Be Funky” o il placido synthpop di “The Evil That Men Do” che, quasi improvvisamente, vira verso l’hip hop con l’ospite Cadence Weapon) o dolci perchè portatrici di enorme serenità  (le deliziose melodie che attraversano “Guilty” e “Out Of My Depth” sciolgono la tensione come neve al sole).

Un bell’esempio di dance pop da presa a bene, consigliato a tutti i più inguaribili ottimisti ma adatto anche a chi, come il sottoscritto, vede tutto nero e quelle pochissime volte che si è trovato in una discoteca ha ballato con la grazia di un ippopotamo con un’unghia incarnita.

Credit Foto: Ronald Dick