“What a fucking rotter”, all’ora del tè, sulla ingessata, ordinaria, tradizionale e bigotta TV inglese degli anni Settanta.

Danny Boyle affonda i suoi artigli visivi nelle pagine di “Lonely Boy”, narrazione umana ed artistica dei Sex Pistols e di Steve Jones, il quale, a suo tempo, aveva ripercorso – senza alcun timore o vergogna – gli anni difficili della sua giovinezza. Anni scanditi dagli abusi sessuali perpetrati dal patrigno, dall’assenza e dalla debolezza della madre e da un sistema scolastico – quello britannico – che, incapace di interpretare e comprendere i tempi attuali, continuava ad affidarsi ad assurde e reprimenti regole ottocentesche, non esitando a punire, colpevolizzare, irridere o ghettizzare i più deboli, i più fragili, i più soli, i più sensibili.

E così Steve Jones crea il suo mantello fantasma, convinto che lo proteggerà  dall’occhio brutale e dispotico di quella società  che, in fondo, preferisce voltarsi dall’altro e ignorare quelli come lui, derelitti e reietti, feccia sociale destinata a vivere dei peggiori espedienti, creature tossiche ed abiette che, prima o poi, finiranno per marcire in una delle prigioni di Sua Maestà  o, peggio ancora, finiranno, a faccia in giù, in qualche vicolo sporco e malfamato della città .

Jones diventa un ladro, con i suoi furti equipaggia la band, ruba persino gli amplificatori del suo idolo David Bowie e quando ogni cosa sembra destinata a finire e il ferreo sistema punitivo britannico è in procinto di stritolare ciò che resta della sua umanità , ecco che Malcolm McLaren e Vivienne Westwood compaiono all’orizzonte. Sono l’ultima isola sulla quale rifugiarsi, un’isola di gentilezza che Steve non aveva mai conosciuto nella sua giovane e breve esistenza, un’isola che prende la forma e la consistenza del loro negozio d’abbigliamento femminile “Sex”, un’isola sulla quale non si sente giudicato o marginalizzato e sulla quale sente la presenza di anime affini, di altri fiori, ugualmente malati, moribondi e disadattati che scherniscono tutto ciò che viene considerato normale, necessario, rassicurante, bello e soprattutto socialmente giusto ed accettabile. Ciò che Jones prova per McLaren, quindi, è un vero e proprio sentimento di amore e di amicizia, qualcosa che, purtroppo, condizionerà , puntualmente, la sua interpretazione dei fatti, delle persone e degli eventi, offrendo all’astuto Malcolm la possibilità  di manipolare e di condizionare i Sex Pistols.

Ormai è storia nota come Malcom prese, finanziariamente, per il culo la band, sfruttandoli e derubandoli, mentre, intanto, le loro energie si disperdevano nell’esasperante, sciocco e conflittuale rapporto esistente tra Jones e Lydon, un misto di ammirazione, rabbia, spregiudicatezza e cattiverie reciproche sul cui sfondo scorrevano fiumi di alcool, sesso e droghe. Vicende leggendarie che Danny Boyle ha utilizzato, ovviamente, per rendere interessante, agli occhi del grande pubblico delle piattaforme di streaming, la sua serie TV.

Sappiamo di come John Lydon abbia tentato di opporsi a questo progetto, considerandolo una ricostruzione della storia della band troppo effimera e fiabesca e, di conseguenza, a suo modo di vedere, eccessivamente borghese, ma potremmo sostenere la medesima posizione nel giudicare, ad esempio, la sua partecipazione al reality-show giuridico “Judge Judy” oppure la sua recente ammirazione per la regina Elisabetta II, che, al di là  del personaggio e del suo attuale ruolo, resta il simbolo di secoli e secoli di ingiustizie e di soprusi, di tiranni che si sono, il più delle volte, mostrati insensibili, violenti, assassini e sessualmente deviati.

Senza alcun dubbio Lydon non ama il punto di vista di Boyle, anche perchè esso è influenzato profondamente da Jones ed è, allo stesso tempo, vero che Boyle abbia costruito, in fondo, una narrazione seriale main-stream, familiare e convenzionale, in modo da coinvolgere una fetta di spettatori più ampia possibile. Se, da un lato, ciò è comprensibile, dall’altro lato, però, ha ridotto la rappresentazione dello spirito indomito e audace del punk originario, quello che voleva distruggere un mondo considerato, ormai, troppo fossilizzato sui suoi vecchi tabù. Un desiderio distruttivo che si manifestò nel rifiuto di quelle regole condivise che obbligavano le persone a vestirsi, parlare, muoversi, suonare, cantare, lavorare, amarsi, odiarsi, eccitarsi, festeggiare, addolorarsi, studiare, crescere e relazionarsi secondo modelli e schemi precostituiti e ipocritamente puliti, attenti, rispettosi, quegli stessi schemi retorici che, oggi, definiamo politicamente corretti.

Resta, comunque, il piacere di ascoltare quelle canzoni. Resta il piacere di rivivere, nonostante i già  citati limiti seriali, narrazioni ormai leggendarie: il disastroso tour nel profondo Sud degli USA del ’78, quello che condusse alla disgregazione della band; la distruttiva storia d’amore tra Syd e Nancy; il crudo e tagliente realismo di Malcolm McLaren secondo cui l’immagine era, alla fine, tutto ciò che contasse davvero e che potesse fare la differenza, incurante di quella working class che tentava di riprendersi il futuro che le era stato portato via e che intravedeva nel punk, al di là  del trucco pesante, dei piercing e delle spille da balia. La ricerca di questa concreta possibilità  di salvezza, quella che avrebbe consentito al nichilismo primordiale di diventare speranza (la speranza seminale che anche i Pistols assaporarono nel celebre concerto gratuito di Natale ’77 per le famiglie dei pompieri in sciopero da settimane), ha consentito, infatti, al movimento, attraverso altre band, altri personaggi, altre vicende umane ed artistiche, di rimanere sempre vivo ed attuale.

I Sex Pistols e il loro punk influenzarono la cultura, la moda, la musica, le arti visive. Oltrepassarono la terribile giovinezza dickensiana vissuta da Jones e da tanti altri ragazzi della sua generazione, oltrepassarono le pressioni psicologiche e corporee dell’austero sistema scolastico inglese, oltrepassarono la rabbia alienante che si respirava nelle carceri e nei centri di custodia del Regno Unito, oltrepassarono la povertà  e la frustrazione che caratterizzavano la vita della così detta classe operaia, oltrepassarono la violenza repressiva di quel sistema di potere fascista che, attraverso le sue istituzioni – compresa la stessa monarchia – bramava solamente perpetuarsi ed imporre la propria volontà  e il proprio dominio assoluto sui cittadini/sudditi, oltrepassarono la statica, compiacente e conveniente lettura dei fatti e degli eventi mondiali offerta da quegli artisti che avevano fatto del progressive-rock cantautoriale il proprio unico linguaggio espressivo, oltrepassarono tutto ciò da cui si sentivano schiacciati e consegnarono al mondo uno dei più segnanti, significativi ed influenti album della storia: “Never Mind The Bollocks. Here’s The Sex Pistols“.