No, fidatevi, gli Alvvays non sono dei procrastinatori seriali – come ci hanno dato l’impressione di essere. Il furto del registratore con le demo da parte di un ladro che ha fatto irruzione nell’appartamento di Molly, alluvioni nel seminterrato che hanno danneggiato la strumentazione e quarantene sono le peripezie che hanno prolungato i tempi del terzo disco di una delle sorprese della scena indie degli anni Dieci.
Un’attesa di mezza decade, ma che – sia chiaro sin da subito – è valsa la pena.

Sì, perchè i canadesi non hanno seguito, come qualcuno avrebbe potuto aspettarsi, pedissequamente la via seminata dai primi due dischi. Anzi, hanno ampliato gli orizzonti della nuova ondata dream pop grazie a una policromatica retromania, che ha tutta l’aria di attingere, perlopiù, dagli anni Settanta e Ottanta: dall’effervescenza del power pop alle vibrazioni spleen della new wave. Un senso di novità  che, probabilmente, si deve anche al rinnovamento della sezione ritmica: Sheridan Riley (batterista) e Abbey Blackwell (bassista) sono le nuove forze fresche del gruppo di Toronto.

Sin da subito, con le adrenaliniche “Pharmacist” e “Easy On Your Own”, l’ascoltatore viene travolto con un’intensa e distorta freschezza. Molly Rankin canta, sfoggiando una pregevole intensità  vocale, motivetti twee – che parlano di labili infatuazioni e fine settimana passati in solitudine a sprecare i propri migliori anni – su muri shoegaze di chitarre dall’andazzo jangle pop – insomma, alcuni ingredienti che già  fecero da marchio di fabbrica per ai Lush.

Il power pop di “After The Eartquake” riecheggia i dB’s e The Go Go’s. Tuttavia, sarà  sufficiente l’arpeggio cristallino nei primi secondi, in stile Tom Verlaine (Television) o Johnny Marr (The Smiths), per trasbordare l’ascoltatore in uno stato di estasi.
Il tributo nei confronti del chitarrista dei Television diventa piuttosto esplicito nella quarta traccia del disco – chiamata “Tom Verlaine”, appunto.

Con delle tastiere dal retrogusto New Order, “Very Online Guy” si prende gioco dei cosiddetti “reply guy”: tipi che passano il proprio tempo sui social a denigrare con toni saccenti e irritanti i post altrui ““ solitamente, nei confronti di donne o celebrità . I nostri carissimi “leoni da tastiera”, insomma.
Al chiaro di luna troviamo “Tile By Tile”, che rimanda al synth-pop gotico di John Maus ““ il meraviglioso arrangiamento di violino e il funebre organo da chiesa si rivelano delle gemme inaspettate.

Dopodichè, l’hyper pop tornerà  ancora una volta sulla cresta dell’onda con le spudoratamente orecchiabili “Pomeridian Spinster” e “Belinda Says”.
A giudicare dalle sonorità  soffuse del bedroom pop, “Bored in Bristol” potrebbe risalire alle sessioni di “Antisocialites” – il loro secondo disco.
L’ultima tappa di questo meraviglioso ràªverie è una ninna nanna minimale, “Fourth Minute”.

Per buona parte dell’album si percepisce un senso di libertà , divertimento e smodatezza. A differenza di alcuni brani passati del complesso canadese, quelli di “Blue Rev” non amano ripetersi in strofe e ritornelli ben impostati; preferiscono contraddirsi, contrastarsi, sorprendere e cercare sempre qualcosa di nuovo da far emergere – l’eccezione diventa non ritrovare più di un ritornello o più di un middle eight nello stesso pezzo. Inoltre, l’immediatezza non viene otturata in alcun modo dagli arrangiamenti curati, dalla stratificazione sonora e dalla ricchezza compositiva dei brani – convivendoci a calzino.

D’altronde, “Blue Rev” è nient’altro che il modus operandi degli Alvvays affinchè si riesca a sovrastare, fino a rendere impercettibile, il lancinante dolore di un cuore spezzato.

Photographer Credit: Eleanor Petry