A cura di Koc
Se siete dei cinefili non più giovanissimi, guardando “Siccità” di Paolo Virzì potrà accadervi quanto successo a me. Sono rimasto rapito dalla trama del film per tutta la prima ora, poi – però – ho ricordato una cosa e la magia è in gran parte svanita.
Ma andiamo con ordine. Roma, ai giorni nostri: non piove da tre anni e la situazione è naturalmente grave. In mezzo ai disordini e al caos dato dalla corsa all’approvvigionamento, iniziano a comparire tutta una serie di personaggi le cui vite non sono o non sembrano essere correlate. Intanto sono da sottolineare la concreta prova attoriale dei vari interpreti (su tutti Silvio Orlando) e una regia molto “americana” – belli gli effetti speciali che mostrano il Tevere completamente asciutto – che, insieme, coinvolgono lo spettatore nella storia fin dall’inizio. E’ un film corale, dove tutte le figure che appaiono, dalle maggiori a quelle di contorno, cercano di emergere: in una città senz’acqua la gente pare letteralmente affogare nei propri problemi.
La siccità è un fattore che acuisce le percezioni, ma non è la protagonista del film. La stessa Roma, colta nei suoi aspetti decadenti, è già oggi così, pur con il suo fiume ancora pieno. Astutamente, Virzì riesce a togliere il disastro naturale dal primo piano, anche perché l’interruzione dell’erogazione dell’acqua è imminente ma non è ancora avvenuta. Nel frattempo, tra tante persone che sgomitano per affermare la propria esistenza, vediamo gli scarafaggi – ormai tantissimi – che ad ogni inquadratura si affannano per sparire dalla vista degli umani e dallo schermo. Ho pensato ad una potente metafora: solo più avanti ho scoperto come gli stessi facessero parte della narrazione a tutti gli effetti.
Sebbene la sceneggiatura sia efficace nell’evidenziare le sfaccettature della personalità dei singoli, ogni tanto la descrizione scade nel manicheo: la TV è sempre cattiva, concentrata sul sensazionalismo o sul fenomeno del momento; fenomeno che è pronto ad essere accantonato se emerge qualcosa di più allettante. Oppure il leader politico del centrosinistra, uno dei vari fantasmi che si materializzano nell’auto di Loris (Valerio Mastrandrea), invariabilmente moscio e ipocritamente inclusivo.
Arriviamo a metà film, con la sensazione di qualcosa davvero ben costruito e recitato, ma da qui in poi le cose non mi hanno più convinto tanto. Innanzitutto, scopriamo che gli scarafaggi sono portatori di una nuova pandemia: il regista, infatti, la usa come escamotage per incrociare le storie dei vari personaggi, e farne ritrovare alcuni all’ospedale è stata la soluzione. Ma c’era bisogno di aggiungere alla siccità un’altra sciagura di questi anni?
In realtà la nuova epidemia è un altro degli elementi del caso che si abbattono sulle vite dei protagonisti: lo stesso caso che li fa incontrare, talvolta per pochi secondi e in modo occasionale, talvolta facendoli scontrare, con effetti alternativamente devastanti o salvifici. E qui mi si è sbloccato un ricordo: il tema degli sconosciuti che incrociano le proprie vite (o i cui rapporti sono a noi sconosciuti) è davvero somigliante a quello usato in “Crash – Contatto Fisico”, film del 2004 di Paul Haggis, così come si ripete l’idea del destino beffardo: per il film italiano vedasi la morte in acqua in una Roma completamente in secca. Mi è parso poco originale e pure poco originale mi è sembrata la chiusura, con tante vicende che rimangono aperte ma che vengono riunite tutte nel finale sotto una piuttosto scontata pioggia torrenziale, che va a concludere un film ben impostato ma non perfetto.
Per carità, rimane apprezzabile il tentativo: credo Virzì abbia voluto tastare il polso degli italiani dopo due anni di caos pandemico. Secondo me l’espediente della crisi idrica in sostituzione al Covid era ideale e sufficiente. Così, invece, il motivo della siccità è rimasto un po’ a secco.