Se degli anni Novanta volessimo catturare l’essenza più spirituale e introspettiva, non potremmo fare a meno di incrociare il nostro cammino di ricerca con quello seguito dai Low, con le loro armonie verbali, con i loro arrangiamenti minimali e le loro struggenti, accattivanti e penetranti atmosfere sonore, che sono, allo stesso tempo, anche la loro personale ricostruzione di quell’inverno di disperazione e di quella primavera di speranza alle quali Charles Dickens seppe dare una descrizione testuale così vivida e profonda, mettendo in evidenza tutti i contrasti e tutte le contraddizioni insite nelle scelte degli esseri umani.

Aspetti in chiaro-scuro che, sin dal primordiale “I Could Live In Hope”, hanno fornito, alla band americana, il materiale emozionale sul quale edificare le proprie trame sonore rarefatte, oniriche, crude e spettrali, delle vere e proprie poesie allucinate, in bilico tra la nevrosi e la depressione. Poesie minime e maniacali che solo l’amore puro ““ quello più veritiero e, di conseguenza, libero dalle tensioni materialiste e dai rispettivi deliranti compromessi che avvelenano le nostre esistenze ““ riesce a salvare dal baratro eterno della fine, dando origine così alla rassicurante e vibrante “Lullaby”, la quale ci restituisce la dignità  del nostro tempo vissuto, qualsiasi esso sia, certi che questa canzone, in un loop interminabile di trasformazioni e di rivoluzioni, resterà  perennemente attuale, intrisa di un presente, il nostro attuale presente, che nessun passato e nessun futuro, per quanto bui o lucenti, potranno mai porre in secondo piano.

E così, senza che nessuno di noi se ne rendesse conto, stagioni di tenebre e di splendore sono arrivate e sono inevitabilmente trascorse; ci siamo sentiti soddisfatti e subito dopo completamente vuoti ed esausti; ci siamo nascosti nella dimensione nostalgica di “Long Division” o magari in quella assolutamente familiare del breve “Transmission”, aprendoci via, via a sonorità  che si facevano più sperimentali, più spigolose e sempre più elettroniche, andando a definire dei nuovi e interessanti substrati sonici in grado di poter assemblare il rumore e la melodia, le voci e il silenzio, i sogni e gli incubi, l’immaginazione e la memoria: tutto quello che potesse essere utile a sintonizzarsi con i nostri pensieri e i nostri stati d’animo più intimi.

I Low hanno saputo dare consistenza ad ogni indugio, ad ogni segreto, ad ogni idea perduta, permettendo al mondo del non-è di prendere forma e consentire alle sue anime inquiete, alle sue ombre, ai suoi orizzonti e ai suoi fantasmi di testimoniare, attraverso la pregevole voce di Mimi Parker, i propri sentimenti, le proprie necessità  e le proprie aspirazioni; consentendo, inoltre, ai due mondi, alle due città  dickensiane, alle due opposte visioni, ai due io, di convivere nello spazio infinito della musica, tra costellazioni digitali ed analogiche, nebulose slowcore, orbite gravitazionali di matrice post-rock, improvvise esplosioni indie-rock, bassi profondi, divagazioni sintetiche, echi divini e quei picchi emotivi con i quali esprimiamo il nostro bisogno di partecipazione al Creato.