Rimango un inguaribile e costante estimatore di Ryan Adams, nonostante abbia sempre immancabilmente sottolineato il carattere troppo spesso ondivago e dispersivo della sua discografia.

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Tale carattere è stato confermato con vigoria dalle recenti plurime pubblicazioni di nuovi album, che hanno raggiunto la ragguardevole cifra di 7 in due anni circa , molte di queste pubblicate senza alcuna promozione, autoprodotte e rilasciate senza supporto fisico.

Io stesso, sempre puntuale nell’acquisto e nell’attenzione che ne derivava, sono rimasto disorientato.

Senza entrare nello specifico merito di ciascun album, in sintesi posso limitarmi semplicemente a ripetere che non giova per nulla pubblicare sempre qualsiasi cosa egli scriva, senza apporre filtri selettivi nella pleora di nuove canzoni o ripescaggi di idee abbozzate e poi accantonate o di mere b-side raccolte alla rinfusa.

Si ripresenta l’ormai endemico problema di dover navigare nell’effluvio di uscite di così tanti album, tra idee brillanti accostate ad altrettante poco ispirate ed incisive.

Tra questi ben 7 nuovi album spicca per interesse e curiosità  per il progetto in sè, “Nebraska”, rielaborazione dell’album di Bruce Springsteen (da breve affiancato allo stesso lavoro di “coverizzazione” da “Blood on The Tracks” di Bob Dylan).

Se pochi anni or sono destò stupore , ricavandone assai più esposizione mediatica , la riproposizione di “1989” di Taylor Swift, “Nebraska” è passato sotto traccia un po’ ovunque, allo stesso modo di quel che è successo al personaggio Ryan Adams in toto a partire dal 2019 (a seguito delle poco edificanti accuse in merito alle proprie vicissitudini personali).

Da quel che ho potuto leggere, tra i pochi che in Italia lo hanno recensito, spesso è stato chiamato in causa “Tunnel Of Love”, accostamento con cui non mi trovo molto in sintonia.

Non trovo sufficiente il riferimento all’utilizzo di batterie elettroniche o synth nella maggior parte degli arrangiamenti, tant’è che ritrovo il minimalismo presente in “Nebraska”, se pur con una dose minore di spettralità  ed atmosfere di amara disillusione profuse nell’originale.

La sequenza di brani dell’album di Springsteen è talmente inataccabile, che la base di partenza non è niente di meno che una serie di canzoni ispiratissime per un autentico capolavoro nell’epopea springsteeniana, un unicum che ha sempre portato schiere di ascoltatori non amanti di Bruce ad apprezzare moltissimo “Nebraska”.

La sincera devozione di Ryan verso “Nebraska” è palpabile e, senza risultare calligrafico, rinnova l’ammirazione per questo capolavoro, risultando assai più gradito di molti altri tributi, anche parziali, che ho avuto modo di ascoltare da fonti disparate e realizzate in tempi diversi.

Trovo la sua rielaborazione riuscita, sia quando utilizza l’armamentario elettronico sovra citato sia quando a prevalere sono l’impianto acustico, ivi compreso il pianoforte, in particolare nella conclusiva “Reason to Believe”.

A mio avviso rimane sempre unn grande talento, che ritrovo anche in questo tributo, come rimane tuttavia il rammarico di considerarlo sempre un artista dalle enormi potenzialità  non sempre sviluppate come sarebbe stato auspicabile.