Credit: Raph_PH, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

Tornano finalmente in Italia i Kooks, dopo aver posticipato per l’incertezza pandemica, all’incirca dodici mesi fa, questo tour.

Sostanzialmente trattasi di un nuovo giro celebrativo, per il quindicinale (più o meno) di “Inside In / Inside Out”, il loro disco d’esordio, che uscì nel 2006, in mezzo ad una fucina di nuovi progetti dal Regno Unito, per capirci era anche l’anno del primo lavoro degli Arctic Monkeys.

Un disco, che, a conti fatti, non aveva la pretesa di rivoluzionare la storia della musica, ma che ha acquisito, nel tempo un piccolo incipit di evergreen, a testimoniare che quando c’è una scrittura di livello, come, insindacabilmente, in questo lavoro, si vive anche di interessi in maniera più che giustificata. Va detto che è pure invecchiato bene e la quasi maggiore età non la sente per nulla e nel ripassarlo per la data in questione, è stato più che un piacere, con sensazioni di assoluta contemporaneità.

Dicevo scrittura ad asticella alta, nulla di nuovo sul fronte, per carità, ma canzoni tutte meritevoli di attenzione e tasto skip ampiamente accantonato, a pensarci, in una raccolta articolata, non è peculiarità di tutti i giorni, anzi, quindi ci sta un tributo d’affetto in versione tournée per questo fortunato esordio.

Praticamente è stato eseguito per intero, alternato o accompagnato da cose recenti.

Andando con ordine, aprono le danze, gli Stone da Liverpool, gruppo emergente, istant classic brit rock, con rimandi seventies, “Money” è un grande singolo, anche se forse paga il tributo quasi plagiesco ai Kasabian di “L.S.F.”, tanta energia e riot giovanile, in una buona mezz’ora rompighiaccio. Danno tutto in un bagnami di canzoni e il già folto pubblico apprezza.

The Kooks in cattedra subito dopo, 21,30 precise, Fabrique rigorosamente sold out, bell’atmosfera da revival anni zero. Loro visibilmente contenti di questo ritorno all’attività live e la tanto attesa data italiana non delude le aspettative, consci del fatto di avere uno zoccolo duro, radicato e consolidato.

Come detto sopra “Inside In / Inside Out” eseguito per la sua interezza, quindi si parte con l’acustica e solitaria presenza del solo Luke Pritchard, alle prese con l’ouverture di “Seaside” e poi via via “See the World”, “Sofa Song”, “Eddie’s Gun” o la stessa “Ooh La” per passare poi a “You don’t love me” o “She moves in Her Own Way”, tutta una serie di singoli o personali hit snocciolate in sequenza, come la tracklist stessa suggerisce. 

Band in salute, appassionata, colorata, con il suono classico del mondo inglese che più ci piace, intrecci di chitarre elettriche, e la base ritmica a reggere dalle fondamenta.

C’è spazio anche per momenti più intimisti come la bellissima “I Want You”, i suoni più recenti vedi “Bad Habit” o “Closer”, una scaletta ricca di montagne russe, che porta, a ragion veduta, in palmo di mano il festeggiato e con esso tutta quella sincerità compositiva di una band alle prese con la scrittura del loro disco più significativo, appena girati i vent’anni.

Non può non chiudere l’immancabile “Naive” come ultimo bis, con il consueto sing-a-long e saluti di rito, dopo un’ora e venti di show, diretti e senza fronzoli,  bel concerto e bella serata.

Credit Foto: Raph_PH, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons