“Plastic Eternity”, il nuovo album dei Mudhoney, è un’arma di distruzione di massa che la band di Seattle ha preparato con l’obiettivo di fare piazza pulita delle assurdità e dei tormenti che attanagliano la vita moderna. La crisi climatica, l’ascesa della destra radicale e la progressiva disumanizzazione del lavoro e della società nel suo complesso: tutto questo e molto altro viene travolto da un’esplosione psichedelica fatta di chitarre elettriche, pedali fuzz, sintetizzatori analogici e strumentazione vintage.

Credit: Emily Rieman

I testi a metà strada tra l’impegnato e l’ironico non sono tuttavia l’unica peculiarità del garage rock acido, ruvido e potente prodotto dal quartetto americano. Un suono eccitante ma non più molto fresco, imbevuto di melodie lisergiche e ancora carico dei ricordi della bella epoca grunge che fu, percorre tutti i quarantadue minuti di un disco che, nonostante gli anni e le esperienze ormai alle spalle dei suoi arcinoti autori, ci riserva qualche piacevole sorpresa.

Si va dalle percussioni tribali dell’allucinogena “Almost Everything” alle atmosfere simil-southern di “Cascades Of Crap”, passando ancora per l’elettronica estremamente minimale dell’ossessiva “Flush The Fascists” alle tinte blues che fanno da contorno all’oscura “Severed Dreams In The Sleeper Cell”. Le influenze sono tante ma, alla fine della giostra, domina la pura energia, tra bordate cariche di nervosismo (“Souvenir Of My Trip”), fiumi di punk dal sapore antico (“Move Under”, “Human Stock Capital”) e gocce di hard rock dai toni sixties e dal retrogusto stoner (“Tom Herman’s Hermits”, “Cry Me An Atmospheric River”). Un buon lavoro da parte di Mark Arm e compagni.