Fa tutto da solo David Thomas, unico membro costante dei Pere Ubu, che si autoproduce un album di pura follia post-punk destinato a una assai esigua nicchia di cultori del rock più pazzoide, rumoroso, caotico e cervellotico. Non ci sono trucchi, non ci sono orpelli: nelle dieci tracce di “Trouble On Big Beat Street” c’è solo il genio sregolato di un uomo che difende a oltranza la sua idea unica di musica.

Credit: Brian David Stevens

Una mescolanza avanguardistica di suoni disomogenei, spesso in pieno conflitto tra loro, che si fondono creando atmosfere stranamente suggestive. Questo diciannovesimo lavoro dei Pere Ubu potrebbe benissimo essere la colonna sonora di uno strampalato film noir girato con pochi mezzi ma tante idee.

Note oscure e inquietanti fanno da contraltare alla voce nasale di David Thomas, stravagante maestro di cerimonie cui spetta la responsabilità di dare una forma più o meno definita a un’opera nata quasi in presa diretta, figlia degli impulsi e degli istinti dei musicisti coinvolti.

Tra il dramma e l’ironia alla base di “Trouble On Big Beat Street” trovano spazio tracce di blues, jazz, industrial e persino un qualcosa che definirei musica da circo (“Nyah Nyah Nyah”). L’ascolto è faticoso, a tratti persino ostico, ma di rado noioso: Thomas gioca con le peculiarità del suo stile inconfondibile e ci consegna un album tutto sommato interessante, frutto di un genuino desiderio di ricerca che non ha nulla di pretenzioso. Incredibile avere ancora questa voglia di fare – in alcuni passaggi anche di stupire – a distanza di quarantacinque anni da “The Modern Dance”.