Non c’è dubbio che mai come in questa fine 2023 inizio 2024, i destini della diaspora dei Sonic Youth stiano virando verso direzioni antitetcihe, viste le recenti pubblicazioni dei due live (“Live in Brooklyn” e “Walls have ears”) e questa nuova prova solista della Gordon, gli straordinari set di quella che fu la più importante band alternativa degli ultimi 30 anni mentre “The collective” ha tutto fuorchè significato celebrativo, essendo un duro monolitico sguardo sul presente/futuro.
La ex “girl in a band” non si sottrae alla rinnovata e mai sopita esposizione artistica, ma lo fa a modo suo, riprendendo quelli che erano i fondamentali del suo DIY pre Sonic, fatti di sperimentalismo fra drum machine e corde vocali, affidandosi in modo ancor più invasivo alla mani del solidale produttore Justin Raisen che forgia attorno all’aurea divina di Kim una abrasiva corazza metallica di chiara e granitica impostazione, dove convivono diverse influenze del presente, in un’architettura tendenzialmente industrial, possente e senza tregua.
Con “The collective” si esce definitivamente dal paradigma Sonico, riprendendone però le ambizioni e le motivazioni di ricerca della scena underground che si cela dietro l’apparente banalità del mainstream, spostando l’ambientazione dalla no wave e dal substrato art rock newyorkese, al delirio urbano losangelino, nuova dimora della nostra, riproducendone gli abissali strati di vertigine, il rumore di fondo, non più dissonante angst giovanile, ma perenne presenza di drone music come forma mentis, inserendo nei brani trap, il dub pulito da ogni forma groovy, tanto hip pop deviato e quasi urticante, come se i Dalek fossero vicini di casa Gordon.
Lo spoken sempre caldo e così catchy di Kim attraversa tutte le canzoni senza pause e senza cali di tensione, anzi, aumentandone la portata dell’impatto sonoro, ampilando il messaggio di quella che è una vera e propria immersione nella complessità, di un lavoro che nasce come risposta al disordine, che parte dal disordine musicale di cui si compone per sottolineare che la risposta salvifica è sempre dentro le cose, dentro il farsi di una musica come forma d’arte, che si bagna col presente destabilizzante ponendo le sue fondamenta sull’aspetto umano, una nuova guida sonica al nuovo rumore.
E’ un segnale di presenza di un artista mai doma che si connette al presente più ostico e si rivolge al futuro in coerenza col passato e a suo agio con quello che le gira attorno; certo, l’album non dà tregua e a volte si vorrebbe che la leader prendesse in mano un basso e si mettesse a suonare qualcosa che fosse un vero strumento, a volte sembra che l’aspetto produttivo prevalga più del contenuto, che la sostanza subisca la forma e non viceversa, tanto che dopo l’ascolto completo rimane una sensazione di sfinimento. Forse il modo giusto di porsi, se mai ce ne fosse uno, è quello di dosare questa bordata corrosiva una manciata di brani alla volta, magari scoprendono i dettagli canzone per canzone, il che ci permetterebbe di avvicinarci più compiutamente alla nuova dimensione della Gordon, senza rimanere ingannati dall’asprezza della proposta, dal suo innato senso di diva respingente, dalla femminiltà così forte ma anche allo stesso tempo temuta, mentre in fondo siamo di fronte all’eterna ragazzina dal profondo senso percettivo, capace di rispondere pienamente agli istinti animali anche dopo i 70: quando l’attitudine è tutto!
A girl without a band