Il (bel) rituale di Jon Hopkins. Già. Perché il nuovo album del musicista britannico, il cui titolo è “Ritual” (per l’appunto), è una squintalata di suoni sperimentali che spaziano dall’ambient al tribal dub. Poco male. La profondità sonora, del resto, è sempre stata una delle costanti nello stile di produzione dell’artista londinese. Non solo. C’è un intero mondo di sfumature da esplorare in “Ritual” che trae maggior vantaggio da un ascolto attento e giammai fine a sé stesso.
“Altar”, per esempio, raggiunge profondità cavernose che possono essere quasi percepite oltre che ascoltate. Si tratta, infatti, di un brano pensato per essere ascoltato tutto d’un fiato, come una specie di tornado emotivo. Un aspetto del disco che spicca immediatamente risiede proprio nel suo sound magistrale, più cinematografico di quanto gli ascoltatori possano aspettarsi dal caro vecchio Jon.
Va da sé, naturalmente, che richieda un tipo di immersione diverso rispetto al suo predecessore; non ci sono discorsi di Ram Dass o particolari spunti sonori su cui fare affidamento, con persino il titolo e i nomi delle tracce aperti all’interpretazione. Insomma, un vero e proprio scrigno musicale. La bellezza di un’opera come “Ritual” sta nella continua ricerca di un mood che faccia da ponte tra Brian Eno e l’elettronica più ricercata ed elegante.
Le sue inclinazioni ambient significano che lo si può utilizzare come musica di sottofondo e lasciarlo scorrere, consapevoli, però, che merita un esame più attento, in particolare quando un senso strisciante di disagio si insinua in “The Veil”, traccia numero quattro del lotto, che si assesta di nuovo in un drone che è unito a colpi di dissonanza e percussioni che crescono in epicità, prima che le cose raggiungano un picco drammatico con “Evocation”, il momento più irrequieto del pezzo.
All’ascoltatore non viene mai offerto niente di più che un’implicazione sul “rituale” in sé, ma mentre “Solar Goddess Return” osserva un altro crescente senso di tensione che sembra così intenso da non rompersi mai, chi ascolta – quasi inconsciamente – si ritrova a riflettere sullo scopo di questo tipo di musica (regale). In definitiva, caratterizzato soprattutto da loop di batteria ipnotici, “Ritual” rappresenta Hopkins al suo massimo grado compositivo. L’album in questione si eleva verso una magnificenza sonora che va oltre la creatività stessa. Il producer britannico potrebbe non averlo nemmeno concepito come un viaggio in sé, ma alla fine ci ritroviamo tutti passeggeri inconsapevoli di una locomotiva dannatamente affascinante.