A distanza di tre anni da “The Witness”, che segnava il loro ingresso nell’illuminata etichetta Joyful Noise, i canadesi Suuns tornano sulle scene con un album che ne ricalca l’indole libera e ondivaga, accentuando se possibile la componente sperimentale.
Il gruppo, divenuto un trio dopo la recente defezione di Max Henry, che all’attivo vanta sei full-lenght pubblicati dal 2010 ad oggi (più un Ep di sei brani datato 2020), rappresenta un caso particolare all’interno della scena contemporanea, in quanto pur avendo sempre bazzicato territori musicali di difficile definizione – ma che potremmo ascrivere al rango di avant-rock o art-pop – ha di volta in volta alzato l’asticella della complessità, sfumando sempre più certi contorni stilistici per offrire all’ascoltatore una musica del tutto fluida, senza vincoli strutturali definiti.
Un merito dal punto di vista artistico questa scelta, ma che rischia di rivelarsi controproducente se il tutto va a perdere progressivamente la sua forza comunicativa e la capacità di creare quelle atmosfere come gli riuscivano a grandi dosi nei loro primi lavori in studio.
Se penso a certi artisti di area elettronica, ambient e psichedelica (ma in fondo è una considerazione che potrei applicare per qualunque tipo di musica) ciò che fa la differenza tra il mero esercizio tecnico e la sua esecuzione sul campo è riuscire a trasmettere sensazioni nell’ascoltatore, il saper creare un immaginario.
In “The Breaks” questi aspetti più “emozionali” emergono solo a tratti, dando l’idea che talvolta i ragazzi (Ben Shemie, Liam O’ Neill e Joseph Yarmush) abbiano assecondato troppo la loro singolare predisposizione a frammentare piuttosto che a unire; tutto il disco è stato in pratica assemblato a posteriori, e risulta essere frutto di tagli, loop, segmenti, effetti elettronici, senza che alla base il più delle volte vi fosse una linea da seguire o qualche scarna componente melodica.
Come detto è un modus operandi lodevole e apprezzabile in quanto mette alla prova una rediviva creatività dei Nostri ma, forse più che nei precedenti dischi, diviene difficile innamorarsi al primo ascolto.
In ogni caso non mancano certo gli elementi di interesse, direi anzi che ogni traccia (dall’iniziale “Vanishing Point” con i suoi tratti ipnotici e suadenti a una “Overture” dai toni epici; dalla spaziale “Wave” alla più sfaccettata title-track) vanta al suo interno delle soluzioni ricche e variegate, ma la mia sensazione è che molti spunti potenzialmente ottimi siano stati dispersi in mezzo a tanto magma sonoro.
Di certo non si può contestare ai Suuns che manchi loro vitalità e intraprendenza, vedremo però se in futuro il tutto verrà incanalato in qualcosa di più sostanzioso.