Credit: Michele Sanseverino

L’universo non è affatto un luogo silenzioso, esso continua a muoversi e viaggiare in tutte le direzioni e, contemporaneamente, continua a sussurrarci fatti e eventi remoti che, altrimenti, non potremmo mai ricordare. L’universo, però non è solamente un richiamo del passato, esso evolve verso un futuro che ci invita a superare i nostri stessi limiti, liberandoci, finalmente, di quei pensieri e quegli atteggiamenti oscuri che ci vorrebbero perennemente imprigionati in una dimensione statica e ristretta, sterile e dispotica, malsana e virale, arrabbiata ed aggressiva, nella quale, purtroppo, le esistenze non contano tutte allo stesso modo.

Discoverland, nella sua recente ed appassionata ultima fatica discografica, è un viaggio concettuale in noi stessi, su questo pianeta e ben oltre i limiti della galassia che lo ospita; è un viaggio terapeutico che ci esorta a conoscere ed amare la diversità; è un viaggio spaziale, ma anche un viaggio temporale, attraverso i giorni che costruiscono le nostre brevi esistenze, ma anche attraverso le ere, i secoli, le scelte, le colpe, le mancanze e le straordinarie intuizioni che hanno condotto l’umanità a scrutare le stelle.

Pier Cortese e Roberto Angelini, con la preziosa collaborazione di Niccolò Fabi, si lasciano trasportare dalle onde del tempo, donano consistenza musicale a quello che, in fondo, è un semplice, puro ed onesto legame d’amicizia, dando vita ad un’esibizione in due parti; la prima parte consiste nella versione live dell’ultimo album “Ero”, delle domande a cui gli esseri umani tentano, invano, di dare una risposta, della consapevolezza che, anche se adesso questa risposta ci appare sfocata, impossibile ed irraggiungibile, essa, in realtà, esiste, da qualche parte nel nostro spirito e nella nostra coscienza, di conseguenza non dobbiamo mai perdere la speranza, non dobbiamo mai smettere di essere curiosi e affamati di conoscenza. La seconda parte, invece, ci riconduce a quelle che sono le origini di questo progetto, alla volontà di offrire una nuova e diversa luce alle canzoni che hanno amato e che hanno contribuito alla loro crescita e maturazione umana e professionale; stupenda è, a tal proposito, la versione discoverlandiana di “Via con me” di Paolo Conte, un suggestivo intreccio di parole, di versi e di musica che ci spinge ad andare avanti, ad abbandonare quelli che possono apparirci dei luoghi rassicuranti e familiari, per abbracciare la bellezza del mistero, dell’arcano e della promessa che si trasforma, magicamente, in stupefacente consapevolezza.

Questo, in fondo, è il tema del concept-album, questo è l’obiettivo di questo live, mentre il pubblico presente nel Teatro San Marco di Benevento assapora la dolcezza di questo viaggio sonoro, tra trame di matrice tribale, suggestioni etniche, elettronica minimale e rock cinematico, senza, però, mai perdere di vista il chiarore cantautoriale italiano, bensì attualizzandolo e mettendolo in connessione osmotica con le atmosfere indie-folk e alternative-rock d’oltreoceano, perché, come ci hanno mostrato tutti gli artisti che si sono esibiti sul palco, dobbiamo trasformarci negli sciamani di noi stessi: dobbiamo imparare a vedere l’invisibile, dobbiamo sintonizzarci con le forze benevole che pervadono la natura e, soprattutto, dobbiamo imparare a curarci attraverso la contaminazione con le culture differenti ed attraverso il mashup di esperienze diverse, senza mai perdere di vista i luoghi ancestrali dai quali proveniamo, le nostre molteplici, dissimili, diseguali e egualmente affascinanti Itache, siano esse le atmosfere remote ed ammalianti di “C’era una volta il West” o quelle attuali ed energiche di “Canto”. Dobbiamo, infatti, comprendere che ne esistono altre, altrettanto ospitali, altrettanto preziose, altrettanto amorevoli, sulle quali, prima o poi, potremmo approdare e scegliere di rimanere.

Perché la vita è proprio questo, essa termina in un buio improvviso e profondo, un buio nel quale non abbiamo più alcun corpo, alcuna consistenza fisica, nessun appiglio materiale cui aggrapparci, ma siamo, semplicemente, un’anima inconsistente ed indistinguibile dall’oscurità che la circonda. Un muro fitto e denso che sembra vincerla e sovrastarla, ma è proprio qui, in questa dimensione lugubre, che, concentrandoci su quel miracolo che è la vita, su quell’unica ed insignificante cellula, che l’uno diviene due, il due diviene quattro, che la cellula ne genera altre, per poi divenire un corpo, dapprima informe, irregolare ed indefinito e, successivamente, immagine dei propri genitori e di tutti quei fratelli e quelle sorelle che la hanno preceduta, protetta ed amata, così che il ciclo infinito e salvifico del bene e dell’amore possa, nuovamente, avere inizio.