Dici “Razorlight” e pensi subito ai primi anni Duemila, agli mp3, alle canzoni indie-rock come metafore scanzonate di un periodo musicale davvero florido. Adesso, vent’anni dopo l’album d’esordio e un bel po’ di lustri in cui è rimasta ferma ai box – fatta eccezione per quel dischetto discreto del 2018 che risponde al nome di “Olympus Sleeping” – la band di mister Johnny Borrell ritorna sulle scene discografiche con un’opera che tutto sommato riesce a mantenere a galla l’estro creativo degli autori di “In The Morning” e “Somewhere Else”.
Va da sé, naturalmente, che per immergersi a capofitto nelle atmosfere patinate di “Planet Nowhere” – questo il titolo del disco in questione – bisognerebbe abiurare allegramente aspettative eccessive e rimandi sin troppo nostalgici all’epoca (d’oro) che fu. I Razorlight degli anni Venti, infatti, non vogliono essere etichettati come una band “da greatest hits” (parola di Borrell), ma come un progetto riverniciato con nuova linfa vitale. Del resto, ascoltando tracce quali “U Can Call Me” o la stessa “Dirty Luck” appare alquanto difficile non denotare una certa attitudine glamour da sempre intrinseca al background dei Nostri, condita, però, con una verve decisamente moderna e un po’ più a fuoco rispetto al sopraccitato album del 2018.
Il drumming inziale di “Empire Service”, per esempio, risulta dannatamente incisivo, mentre il refrain (contagiosissimo) di “Scared Of Nothing” rappresenta uno dei momenti meglio riusciti di un disco che si lascia ascoltare con una buona dose di leggerezza. E cosa dire di “Cyclops” se non che si tratta del vero e proprio highlight dell’album? Già, perché la terz’ultima traccia del lotto gira intorno ad un sound che è allo stesso tempo nostalgico e moderno, trasportando l’ascoltatore nell’universo indie-poetico della formazione britannica.
Insomma, il ritorno dei Razorlight non sarà epico o regale come quello di altri gruppi più blasonati, ma ci regala una scorpacciata di brani confezionati con gusto e atavica maestria. Mettiamola così: i primi anni Duemila sono finiti da un pezzo. Così come la “rivoluzione” degli mp3 e delle band indie-rock anglosassoni. Epperò, “Planet Nowhere” non va preso come una testimonianza della decadenza di quel periodo storico, ma come la fotografia nitida di una band che è riuscita a lasciarsi alle spalle – con invidiabile dignità – i lustrini di un tempo.
Tradotto in soldoni, Borrell e soci si sono riaffacciati sul proscenio musicale con un buon disco. Chiedere di più significherebbe voler fermare il tempo. E il tempo, soprattutto nel regno delle sette note, giammai appare come un’entità immobile.