Nel 1994, mentre in Inghilterra stava dilagando la britpop-mania sull’onda del successo massiccio di album epocali come “Parklife” dei Blur e “Definitely Maybe” degli Oasis (ma non solo), c’era anche chi continuava ostinatamente a guardare Oltreoceano, a quel movimento passato ai posteri come grunge che, gettando i suoi semi a Seattle, si era infine propagato copioso in tutto il mondo, mettendo al centro di tutto la genuinità e la potenza del rock.

La spinta creativa però in tal senso, almeno negli Usa, si stava esaurendo, soprattutto a seguito di fatti sconvolgenti quali il suicidio del suo uomo simbolo Kurt Cobain, divenuto quasi in presa diretta seppur in modo inconsapevole il portavoce di un’intera generazione, nonchè autentico martire.
Non la pensava così l’industria discografica, pronta invero a setacciare ogni angolo del Paese alla ricerca di nuovi epigoni che potessero ricalcare una formula, musicale e non solo, diventata assai fortunata.

Con questo non voglio dire che tutte le band esplose in quel periodo fossero mere imitatori di Nirvana e affini, ma di certo alcuni canoni, non solo artistici, venivano seguiti alla lettera.
Non fecero eccezione i Bush, i quali come accennato in apertura, pur essendo coevi di quei nomi che stavano affollando le charts britanniche rinverdendo il pop autoctono, erano rimasti folgorati dall’esempio di Seattle al punto di confezionare un album d’esordio che conteneva tutti gli stilemi dei gruppi grunge, in primis dei superbig Pearl Jam e Nirvana visto anche il particolare timbro di voce del leader Gavin Rossdale che sembrava essere la perfetta sintesi di Cobain e Vedder.

Fatta tutta questa doverosa premessa, utile a contestualizzare il momento in cui vide la luce il disco d’esordio dei londinesi Bush, c’è da dire che se proprio molti di quei gruppi poi definiti post-grunge fecero successo “sfruttando” certe intuizioni (forma educata per sottintendere che copiassero), beh, pochi come la band di Rossdale (completata da Nigel Pulsford alla chitarra, Dave Parsons al basso e Robin Goodridge alla batteria) seppero farlo così bene!

Era indubbio che a un primo ascolto “Sixteen Stone” potesse conquistare facilmente tanti giovanissimi rimasti orfani di Kurt e desiderosi ancora di avvertire qualcosa della sua rabbia e della sua emotività, e le dodici tracce che contengono questo pluripremiato debut-album andavano ad assolvere nel migliore dei modi questo compito.

Per tematiche, sonorità, intensità e attitudine brani come “Everything Zen”, “Little Things”, “Comedown” e “Machinehead” (tutte uscite come singoli) vanno ad affiancarsi idealmente a certe hit divenute iconiche del grunge e riescono a coinvolgere come non mai grazie a potenti riff, ritornelli incisivi, melodie serrate e un cantato graffiato ed espressivo; i Nostri poi furono in grado pure di piazzare il colpaccio rallentando mirabilmente i ritmi e accendendo i cuori con la stupenda “Glycerine”, il titolo che contribuirà maggiormente a farli deflagrare nelle classifiche di Billboard, trainando l’album agevolmente ben oltre il milione di copie vendute (alla fine se ne conteranno sei milioni nei soli Stati Uniti, indice di un successo davvero enorme per un gruppo all’esordio assoluto).

I Bush sapranno superare indenni le molte critiche piovute addosso da certa stampa, forti di questo grande consenso commerciale che li porterà a misurarsi in tutti i contesti live più importanti, dove non sfigureranno mai dimostrandosi un’ottima band fatta di musicisti veri (da rimarcare a tal proposito il talento chitarristico di Nigel Pulsford, la compattezza stiistica di Dave Parsons e il vigoroso drumming di Robin Goodridge) certo guidati dal carisma di Gavin Rossdale, ben presto assurto pure a icona sexy del periodo, protagonista del gossip grazie alla frequentazione con Gwen Stefani dei No Doubt la quale in seguito sarebbe diventata sua moglie.

Da questo album d’esordio che li seppe proiettare subito in cima al mondo, i Bush inizieranno una corsa frenetica tra tour, ospitate tv, prime crisi interne, ma la barra rigò dritta almeno fino all’attesissimo nuovo lavoro (“Razorblade Suitcase”, pubblicato nel 1996), in cui mostrarono i primi segni di cambiamento, non certo verso un sound più commerciale e acchiappa classifiche, bensì ancora più rumoroso, cupo e senza compromessi, come a volersi scrollare di dosso un’etichetta di “cloni” divenuta davvero, oltre che ingombrante, francamente ingiusta.

Data di pubblicazione: 6 dicembre 1994
Registrato: presso “Westside Studios” di Londra nel gennaio del 1994
Tracce: 12
Lunghezza: 52:38
Etichetta: Interscope – Atlantic/Trauma Records
Produttore: Clive Langer, Alan Winstanley, Bush

Tracklist:
1. Everything Zen
2. Swim
3. Bomb
4. Little Things
5. Comedown
6. Body
7. Machinehead
8. Testosterone
9. Monkey
10. Glycerine
11. Alien
12. X-Girlfriend