Capello indomabile e magliettone rock un po’ slabbrato dai nostalgici toni anni novanta, Ryley Walker si aggira nonchalant nei pressi dell’ingresso dell’Auditorium Novecento. Manca poco all’inizio del live e i toni sono più che rilassati.

La luce in sala è soffusa e il vociare moderato quando Walker prende posto davanti al pubblico, imbracciando la chitarra spensieratamente. Ringrazia i presenti di essere lì e professa il suo amore incondizionato per gli spaghetti con le vongole. Ad occhio non si direbbe che quello che sta per esibirsi è uno dei nomi di punta del cantautorato americano contemporaneo, ma non appena il musicista dell’Illinois mette mano alle corde diviene lampante il concetto “mai giudicare un libro dalla copertina”.

Tra i primi brani eseguiti spicca “The Roundabout”, estratto dal terzo album dell’artista, “Golden Sings That Have Been Sung” (Dead Oceans Records, 2016), che arriva pian piano sotto pelle. La canzone, sospinta da un prolungato intro, si dissolve con altrettanta lentezza sul finale, grazie ad un outro che è un’onda di note che levigano e fanno svanire ogni possibile mancanza d’attenzione nell’ascoltatore. Nel mezzo dell’esecuzione c’è un Walker concentrato, che fluisce nel suo elemento naturale. Degna di nota anche “Rang Dizzy”, dal più recente “Course in Fable” (Husky Pants Records, 2021), solida e liberatoria, con un “Fuck me, I’m alive” cavato dal petto, che testimonia una storia di riscatto tutt’altro che evidente.

Poi arrivano pezzi psichedelici, che si avvolgono come un serpente nelle sue stesse spire, fanno volare alta la chitarra del rocker e sospendono il tempo con la loro lunga melodia ipnotica. È solo lo strumento a parlare, Walker non emette un fiato. Giusto il tempo di un goffo “grazie mille” e i toni cambiano radicalmente quando il musicista rispolvera la meravigliosa e celebratissima “Primrose Green”, title track del suo secondo studio album del 2015, per Dead Oceans Records. Con “Primrose Green” si sfiorano nodi percettibili, che sembrano intrecciare le atmosfere di Walker a quelle di mostri sacri come Nick Drake e Tim Buckley. In realtà, mi dico che fare paragoni è superfluo, perché se il brano attinge di sicuro dallo stesso virtuoso pozzo musicale, resta comunque un bellissimo prodotto contemporaneo a sé stante.

Insomma per il live all’Auditorium Novecento, Walker mescola costantemente brani tratti dai primi album a lavori più recenti, dimostrando di riuscire a destreggiarsi in maniera fantasiosa, inaspettata e spesso contraddittoria tra astrattismo, sperimentazione, acrobatico finger-picking, canto sempre sull’orlo dell’incrinatura e finali morbidi ed ovattati. È tempo di chiusura e prima di tirare le somme del live l’artista ci fa un piccolo regalo di natale in anticipo, facendoci ascoltare un po’ d’interessante materiale nuovo. Vulnerabilità e scatti improvvisi, deviazioni esperte e fantasmi del passato: nel nuovo lavoro c’è tutto il mistero ancora intatto del ragazzo di Rockford, Illinois.

Di sicuro un bel concerto, eseguito da un bel personaggio che ha deciso di chiamare Roma casa per un anno. Peccato solo che il musicista abbia prediletto un approccio più strumentale – forse troppo ricco di astrazioni surreali – a quello cantautorale per il live napoletano. Personalmente avrei voluto più brani voce e chitarra acustica, secondo me è con quella formula che Walker brilla al suo massimo. Poco male, sarà per la prossima volta, nella speranza che la presenza su suolo italiano ci dia la possibilità di vederlo esibirsi in giro più di frequente.