Che i Black Ends fossero una band speciale, o meglio non inquadrabile nelle classiche generalizzazioni di etichetta, lo si era già capito dall’uscita dei precedenti EP “Sell Out” ma soprattutto “Stay Evil”, uscito nel luglio del 2020. Scritto nel periodo pandemico e dedicato alla memoria di George Floyd, le quattro canzoni del mini album sono un vero trampolino di lancio per quella che viene considerata la miglior band di Seattle del momento.
Band che si forma grazie all’amicizia e l’empatia tra la chitarrista e cantante Nicolle Swims e il bassista Ben Swanson. La Swims è originaria di Oklahoma City ma sin da piccola ha peregrinato per gli States (anche una capatina in Germania) seguendo gli impegni di natura militare della famiglia.
Durante i suoi studi all’ Università dell’Idaho conosce Ben Swanson che più tardi convincerà la Swims a raggiungerlo a Seattle. Non fu di certo difficile l’impresa di convincimento dopo i sei anni trascorsi dall’amica a Huntsville (Alabama), terra in cui non fu facile integrarsi ma soprattutto trovare musicisti neri disposti a formare una punk band da quelle parti.
Il trio attuale si completa con Billie Jessica Paine alla batteria che prende il posto di Jonny Modes che aveva suonato nei primi due EP della band. Originaria di Boise, nell’Idaho, la Paine è un’eccelsa chitarrista, a otto anni le fu regalata la prima chitarra e una copia di Appetite for Destruction dei Guns ‘N Roses, La presenza di troppi chitarristi nei paraggi la convinse a gettarsi su pelli e rullanti e chiedere di partecipare alle audizioni di quel gruppo di Seattle che tanto apprezzava e che proprio in quel novembre del 2022 doveva rimpiazzare Modes. Non ha perso comunque l’occasione di sbizzarrirsi in un veloce e non troppo facile solo in “Red Worry” dove possiamo anche ascoltare il violoncello nel caotico intro di Lori Goldston che i fan più preparati dei Nirvana ricorderanno, tra gli altri, nel famoso “Unplugged”.
Molto più importante è l’apporto della Goldston in “Black’s Lullaby”, una macabra ninna nanna che esalta le doti degli altri tre componenti della band sin dal verso iniziale “I love you when you’re not around“.
Si, quello che impressiona dei Black Ends è proprio la tecnica sopraffina dei musicisti che sembrano, a tratti, proseguire per la propria via, lasciandosi, intersecandosi per poi unirsi in una celebrazione del tumulto, un’esaltazione del disorientamento, la magnificazione di una bellezza che si nasconde dietro accordi a volte stonati e a un cantato svogliato, malinconico, che si oppone all’aggressività musicale esaltandone il contrasto.
Descrivono il loro genere come “Gunk Pop”, definizione da loro stessi coniata, che a quanto sostiena la Swims, indica un tipo di musica melodica “solo un po’ gunky”. Vi risparmio il tempo per la ovvia indagine di traduzione: gunky indica una sostanza appiccicosa, grassa, viscida, qualsiasi cosa non vorremmo trovare sotto le suole delle nostre scarpe o toccare accidentalmente con le mani.
Il notevole numero di strumenti usati nella registrazione del disco dimostra che questi tre ragazzi conoscono la fatica e la gioia delle ore passate a studiare e praticare e se nelle esibizioni live non potranno ovviamente replicare per intero i suoni del disco vi possiamo assicurare che l’effetto sarà lo stesso.
Ogni brano stupisce, ogni brano sorprende, ogni brano ti colpisce e ti lascia allibito.
Sentivamo la mancanza di una band capace di trovare un suono così avvolgente, una band che non ricerca il facile approccio con l’ascoltatore, un sano egoismo che alla lunga premia.
Il fatto che il tutto stia accadendo a Seattle potrebbe essere una semplice coincidenza ma a noi piace immaginare che il “Gunk Pop” sarà, dopo il grunge, la nuova scena del “Seattle Sound“.
Album dell’anno? Perché no.