Vacuo, leggerino, plasticoso, ripetitivo. No, non si tratta della prediction di ciò che sarà il prossimo Festival di Sanremo (stupiscici, Carlo!), ma dell’humus pregnante che si respira all’interno di “The Human Fear”, nuovo album (il sesto in studio) dei Franz Ferdinand. Sì, insomma, senza girarci troppo intorno: se avete voglia di buona musica, di quella con la “emme” maiuscola, che vi faccia rallegrare e, allo stesso tempo, ringraziare la dea delle sette note per avervi iniziato al suo fascino eterno, beh, mettete pure su un disco dei Tears For Fears anni Ottanta.

Già, perché, non me ne voglia il caro vecchio Alex Kapranos (quanto gli si è voluto bene all’inizio degli anni Duemila?), ma il suddetto disco – questo “The Human Fear” – vi lascia addosso la stessa, identica sensazione di quei thriller cinematografici in cui riuscite a scoprire l’assassino dopo un paio di minuti. Epperò, in questo caso, a rimetterci la (metaforica) pelle sono tutti coloro che godevano come dei ricci quando il sunnominato Alex cantava a squarciagola di vecchie sbronze e di amori claustrofobici.
Per carità, alcuni brani non sarebbero neanche malaccio. “Everydaydreamer”, per esempio, gira intorno ad un motivetto che – pur non essendo nulla di trascendentale – riesce comunque a gettare il groove oltre l’ostacolo. E lo stesso discorso, se vogliamo, potremmo estenderlo pure all’indie-rock patinatissimo di “The Doctor”. I guai, se così possiamo definirli, cominciano quando i Nostri decidono di barcamenarsi all’interno di motivetti talmente innocui e pacchiani che al confronto verrebbe quasi voglia di consegnare un paio di Grammy honoris causa a quel mattacchione geniale di Vinicio Capossela (che forse, in passato, un qualche riconoscimento maggiore lo avrebbe meritato veramente).
Le note tristemente tamarre di “Hooked” e quelle dannatamente pacchiane di “Black Eyelashes”, infatti, rappresentano degli scempi sonori da cui sarà difficile riprendersi. Soprattutto per il recensore in questione. “Bar Lonely” e “The Birds” vanno a concludere in maniera innocua (ma pur sempre mediocre) un’opera che entusiasmerà esclusivamente qualche alieno proveniente da Urano o quella parte di popolazione il cui background musicale, per un motivo o l’altro, è fermo ai Tokyo Hotel di “Monsoon”.
Battute a parte, chi scrive ha amato profondamente il gruppo scozzese, e proprio per questo, non riesce a capacitarsi di cotanto piattume. Appare piuttosto chiaro, naturalmente, che nessuno si sarebbe aspettato un lavoro simile al (grandioso) disco d’esordio o a quel piccolo gioiellino che risponde al nome di “Tonight: Franz Ferdinand”, ci mancherebbe. Il tempo regna sovrano. Un po’ come il tiro da tre in NBA. Epperò, anche solo un lustro fa, in pochi avrebbero immaginato la deriva ultra-noiosa di un gruppo che, pur non avendo mai posseduto la genialità musicale dei mostri sacri, un tempo era sinonimo di qualità. Mi urta scriverlo, ma Ulisse si è perso per strada.