La prima stagione di “Squid Game” fu un trionfo assoluto, al punto che non so se qualche serie posteriore l’abbia poi superata in quanto a visioni su Netflix. Convinse la critica quanto il pubblico. Con una buona parte di esso, diciamo quella più disimpegnata (o allocca se preferite), a gridare al miracolo, alla rivoluzione, alla novità, alla rivelatoria critica sociale – magari sono gli stessi che nutrirono simili sensazioni alla visione de “La casa de papel”.

In realtà, invece, la grandezza di “Squid Game” sta proprio nel carpire idee e meccanismi già noti (“Hunger Games”, Battle Royale”, “Il signore delle mosche” e insomma tutto quanto ha a che vedere con lotte mortali tra disperati con i potenti ad assistere con i pop corn in mano), rielaborarli adattandoli a una trama avvincente e sadica e, infine, vestirli con un’estetica irresistibile e disturbante.
Io temevo il peggio. Un effetto “La casa de papel” per l’appunto, anche se ad essere onesti lì il punto di partenza è molto più debole.

E invece bene. Non benissimo, ma bene.

Tra qualche lungaggine e forzatura di troppo, i giochi continuano ad avvincere e scuotere e il protagonista ha motivazioni nuove, combatte tanto con uno shock post-traumatico quanto contro il sistema.

Il finale di (metà) stagione è sicuramente un po’ troppo sbrodolato, ma la sensazione è che possano chiudere molto bene.
Poi basta però.