La soffusa e delicata title track introduce come una sorta di ninna nanna il settimo album in studio della band neozelandese dei The Veils. Si concentrano in trenta minuti per 9 tracce in totale le melodie profonde e in qualche modo inaspettate della nuova fatica della creatura di Finn Andrews.

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La successiva “O Fortune Teller”, ad esempio, traccia in maniera ancora più netta il differente percorso intrapreso con questo “Asphodels”, dove le note si fanno malinconiche ma con il finale che lascia speranza e conduce al singolo “The Ladder”, di una maestosa bellezza, uscito in occasione dell’annuncio del disco. Il pianoforte, protagonista assoluto dell’intero full-length, incede pizzicando i tasti mentre gli archi eterei di Victoria Kelly trasmutano in un climax inafferrabile.

Volevo davvero che gli arrangiamenti degli archi si comportassero come un altro membro della band. Abbiamo persino dato corpo al personaggio, come un attore che interpreta un ruolo. Penso che sia questa collaborazione con Vic a essere davvero al centro di questo disco.

Inaspettato in quanto l’ascolto potrebbe (ma non credo) far storcere il naso a fan più assidui della band che sempre attendono qualche episodio di ruvido indie-blues alla “Nux Vomica” e co. per intenderci; tuttavia, già dal precedente e ottimo “And Out Of The Void Came Love”  del  2023 la strada era in qualche maniera stata tracciata dal deus ex machina e figlio d’arte Andrews (figlio di Barry Andrews, ex tastierista degli XTC).

I suoni soavi e orchestrali del nuovo album non prestano però il fianco ad alcun punto debole e dunque anche i più puristi seguaci apprezzeranno il sofisticato jazz da club nei meravigliosi accordi di “The Dream of Life” o nelle corde di “The Sum”, che rievocano momenti alla Nick Cave nella voce di Finn, sempre più a fuoco e riconoscibile.

D’altronde, i The Veils hanno sempre contraddistinto la loro lunga carriera con ballad di assoluto livello (impossibile non ricordare “Lavinina”) e, lungi dall’essere un album di piano solo, questo “Asphodels” ancor di più mette l’accento sulla fantastica dote della band di scrivere ballate di pregio, giusto interrotte dalla psichedelica “Concrete After Rain”, incisiva e nostalgica nel suo perdurare.

Registrato dal vivo in soli cinque giorni presso i Roundhead Studios in Aotearoa, Nuova Zelanda, l’album prende il nome dal fiore degli inferi dell’antica Grecia e ciò si riflette pure sui testi, nei quali Andrews – che ha pure da solo prodotto l’album – trae spunto più dai grandi poeti che dai colleghi.

Mi manca la disciplina per essere un poeta, quindi scrivere canzoni mi è sempre sembrato il posto giusto per me. Ma poeti come Lorca, Ted Hughes e Louis MacNeice hanno tutti influenzato molto il mio modo di scrivere canzoni. È nello scrivere e poi cantare queste parole che mi sento più utile al mondo, suppongo.

Per approcciare ad “Asphodels”, l’ascoltatore deve assolutamente immergersi nelle sua intima ambientazione e assorbire sia i suoni che il messaggio fino a giungere al completo appagamento che necessariamente deve passare attraverso i due episodi chiave rappresentati dal brioso mood di “Melancholy Moon” e, soprattutto, da “Mortal Wound” con il suo incedere solenne e deciso che segna, a mio modo di vedere, l’apice del disco.

Riporta alla memoria momenti di Lou Reed l’ammaliante “A Land Beyond” che chiude un disco sopraffino e meritevole.