Decadenza e oscurità. Blade Runner. Dispotismo. Relazioni che crollano a picco come nuvole al tramonto. “Constellations For The Lonely”, Il nuovo album dei Doves (il sesto in studio per la band britannica), rappresenta una sorta di sussidiario illustrato degli anni Venti. Almeno stando a quella che è la vision di Jez Williams e soci. Va da sé, naturalmente, che non staremo qui a dettagliare i problemi in cui è incappato il buon Jimi Goodwin durante la gestazione del disco, ma la malinconia è indiscutibilmente il sentimento principale dell’atmosfera cupa che pervade il nuovo capitolo discografico dei Nostri.

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In “Renegade”, primo singolo estratto, i Doves se ne stanno lì a disegnare paesaggi cinematografici sotto un tappeto esplosivo di chitarre e di note eleganti che trasudano tutta l’urgenza creativa del gruppo inglese.  E lo stesso discorso, se vogliamo, potremmo estenderlo pure all’immaginifica “A Drop In The Ocean”. “Cold Dreaming”, invece, si muove su delle coordinate un po’ più asciutte e al servizio di un refrain tra i più incisivi del lotto.

La ricerca di sé e del senso della vita rappresentano le stelle comete del nuovo progetto Dovesiano. Sì, insomma, una delle caratteristiche più preponderanti di “Constellations For The Lonely” è proprio il suo essere una sorta di trattato musical-filosofico su quelli che sono i temi più profondi dell’esistenza umana. All’interno del disco c’è spazio pure per delle ballad dal chiaro retrogusto vintage (“Stupid Schemes”) e per dei gustosissimi accenni gospel (“Saint Teresa”).

E se “Orlando” è una marcia spettrale e darkacustica (mi si passi il neologismo), “Southern Bell” è pura dinamite indie-rock. Già, perché la traccia finale dell’album racchiude in sé tutte le sfumature di un lavoro maledettamente accattivante e che colloca i Doves esattamente a metà strada tra il glorioso passato e un futuro tutto da scrivere. Provando a tirare un po’ le somme, dunque, potremmo definire questo “Constellations For The Lonely” come il gradito, graditissimo ritorno di una band che è sempre riuscita ad affiancare una certa brillantezza compositiva all’eleganza atavica della propria formula musicale. In soldoni, anche se al netto delle difficoltà di cui sopra, Goodwin, Jez Williams e gli altri sono riusciti a realizzare un discone con i fiocchi.

Bontà loro, certo. Ma anche e soprattutto di un producer come Dan Austin (Placebo, Massive Attack, solo per citarne alcuni) che – come nel precedente “The Universal Want” – ha messo la propria esperienza e la propria lungimiranza alt-rock al servizio del trio mancuniano. Rallegratevi pure: le costellazioni dei Doves sono tornate a risplendere.