Come si cambia. Ecco il motto dei simpatici Courting che, nella loro carriera, non hanno mai fatto mistero di apprezzare partite giocate su svariati campi da gioco. Dopo il post-punk/art-garage-rock di “Guitar Music” e il mood alla 1975 (altri ragazzetti che in fatto di varietà sonora ci danno dentro) di “New Last Name” i ragazzi di Liverpool questa volta ci sembrano aver un po’ ristretto gli orizzonti, per prendersi un po’ meno libertà e la cosa non mi dispiace affatto. Intendiamoci, non aspettatevi un classico disco guitar-pop che fila liscio dall’inizio alla fine, quello no, decisamente no, ma sicuramente la loro energia e la consueta frenesia (che non manca mai) sembra che si incanali in qualcosa di più diretto e centrato.

Certo, a sentire l’intro iniziale, con questa piccola orchestra da camera che sembra andare a tutta velocità gonfia di Red Bull e poi “Stealth Rollback” che richiama addirittura l’elettronica nervosa dei Prodigy prima di scivolare in un intermezzo paradisiaco e poi un mezzo delirio con una batteria che picchia senza pietà e urla da comizio post-hardcore…ecco, dicevo, a sentire tutto questo il nostro primo pensiero è: “no, non sono cambiati, c’è da aspettarsi di tutto anche stavolta” e invece la parte centrale del disco (corto, veloce e decisamente snello) va a braccetto con un indie-guitar-pop non voglio dire rassicuramente, ma sicuramente meno incline a partire per la tangente appena può. Io lo trovo un punto di forza del disco, rispetto sopratutto al secondo album che mi pareva francamente dispersivo, banalotto e furbetto nei suoi momenti hyperpop fin troppo ostentati. Mi piacciono questi Courting sempre energici ma anche più a fuoco e meno eccessivi (a modo loro, ovviamente).
Da “Pause at You” a “After You” la chitarra prende il sopravvento. Da un punk-pop-funk tribaleggiante e dannatamente ballabile con questo basso micidiale, si arriva a brani che ci riportano quasi agli anni ’90, in cui il guitar-pop britannico la faceva da padrone con ritornelli che più appicicosi di così non si può (“Eleven Sent (This Time)” e “Namcy”). I nostri sanno essere ruvidi e rabbiosi, dritti al punto e taglienti come, appunto nella citata “After You”, per non parlare del riff bruciante di “Likely place for them” che chiude il disco, in cui sembrano quasi degli Strokes ridotti all’osso prima di impazzire nel finale con un assalto praticamente thrash metal: folli totali, in apparenza, in realtà perfetti manipolatori sonori, assolutamente consapevoli di quello che stanno facendo e a loro agio nelle strade più variegate così come in quelle che ci paiono più lineari.
Lasciamo giusto per il finale della recensione la citazione di quella che è la canzone più stravante dell’intero disco, ennesima conferma che quando i ragazzi vogliono spiazzarci lo fanno senza alcun problema. Il brano è letteralmente diviso in tre parti. La prima ha questo ciondolante andamento sbilenco, come se i 1975 si trovassero in una cantina a improvvisare un mezzo delirio alt-pop con tanto di sax e autotune, poi arrivano gli Aracade Fire ad alzare i giri del motore e via che si parte sempre con il sax che va di assolo e la cavalcata inizia per poi finire però da li a breve, con la terza parte che praticamente si stacca completamente dalle precedenti per scivolare in un delizioso slacker rock made in USA con la benedizione dei Pavement. Cosa vuoi dire di fronte a un pezzo così? Te lo riascolti altre 3-4 volte perché ti sembra impossibile che esista un brano così. E ogni volta ti piace sempre di più.
Morale della favola, io per questo “Lust For Life” tiro su il pollicione e dico promossi a pieni voti!