Potremmo considerare “SABLE, fABLE”, quinto LP del progetto Bon Iver, come un viaggio da una calda oscurità d’inquietudine ad una primavera caratterizzata da pochi, decisi colori ma avvolgente. Non è l’esplosione germogliante di “Bon Iver, Bon Iver”. In fuga dall’autunno, col ricordo della prigione invernale. Non è il tuffo elettronico di “22, A Million”. Non sono gli astrattismi di “i,i”. Trattasi di un album che non piacerà a tutti gli estimatori di Justin Vernon, che avvicinerà molti fan del pop alternativo, ma probabilmente lascerà straniti coloro che sono rimasti stregati negli anni da quella cifra insieme catartica e “obliqua” che ha caratterizzato i lavori citati.

Credit: Graham Tolbert

E si parte dagli echi delle ombre di “Emma, Forever Ago”, prima indimenticabile gemma del Vernon dela fase isolazionista e solitaria. Sono quelle le vibrazioni che troviamo nella prima parte del disco, che accoglie le tracce dell’EP “SABLE”. Questi primi brani riflettono un periodo di crisi personale per il barbuto Justin. Con arrangiamenti minimalisti e toccanti riflessioni confessionali (in maniera mai banale, mai scontata), vengono esplorati temi di dolore, solitudine e autoanalisi, in una apparente resa alla vulnerabilità che in realtà è ricerca: di altro, in sé e oltre sé, Vernon è come illuminato da uno stretto cono di luce nel buio, mentre indaga la difficoltà del cambiamento e la ciclicità/caducità delle cose.

Il sax nella parte centrale di “Award Season” squarcia il nero con una serie di pennellate di luce che costruiranno una via d’uscita verso l’alba.

Quel “But you know what will stay? Everything we’ve made” è un ponte ideale che dalla solitudine porterà alla speranza, alla rinascita, persino alla gioia, sentimenti e visioni che troveremo brani successivi.

La seconda parte, “fABLE”, segna quindi un certo cambiamento di tono, abbracciando nuovi amori, nuove trasformazioni e il costante bisogno di una connessione umana.

You will never be complete/And the strain and thirst are sweet/ you have not yet gone too deep“, canta Vernon in una “Short Story” che si srotola eterea su un tappeto estatico: l’amarezza che in realtà è una dolce spinta verso un orizzonte luminoso e quasi carezzevole.

Da qui in poi succede qualcosa. Una luce garbata illumina di soul bianco lo scenario musicale e riconfigura la creatura Bon Iver secondo coordinate “nuove”, che ricordano i momenti più cristallini dei dischi precedenti, ma ne ammantano il sound e le parole di un calore in fondo inedito, asciugando la formula sonora da eccessive storture, rendendo il tutto non banale ma sicuramente più ordinario: è il segnale di una qualche pacificazione. Questa luce disegna orizzonti insperati, la sensualità è più pacata, l’abbraccio quasi paterno. Brani come “Everything is Peaceful Love” o “From” sono fin troppo quadrati per chi è abituato alla vena unica di Vernon. Fa decisamente meglio, ad esempio, “If Only I Could Wait”, memorabile duetto con Danielle Haim, brano che torna lacrimevole e leggermente frastagliato e astrattista, pur mostrando chiari intenti pop, esplorando la fragilità umana e la difficoltà di essere la migliore versione di sé in un nuovo percorso del cuore. Lì dove Justin è ancora spezzato, attraverso quelle crepe nell’anima, dalla quale scorgiamo i fragili ma speranzosi semi di ciò che verrà, lì ritroviamo la poesia alla quale le canzoni targate Bon Iver ci hanno da tempo abituato, quel tepore, quella sensazione di trovare conforto e rifugio, di poter abbracciare quell’amico che conosciamo da anni e che attendevamo al varco, con quel modo riconoscibile, eppure sempre in grado di sorprenderci con trovate inaspettate