Tutto sommato non è poi così lontano dalla stravagante creatività fin qui esibita della band questo “Song of the Earth”, sorta di progetto a tema di carattere orchestrale sinfonico, dove appunto l’estro dirompente del leader David Longstreth si azzarda a manifestarsi dentro strutture cameristiche, citando Mahler e veicolando un messaggio di sostenibilità ecologica.

Trattasi di più di un’ora di musica, dove la verve sghemba dei Dirty Projectors rimane immutata e fedele a sè stessa, cambi di tonalità, melodie pop non lineari, un procedere che mira sempre a destabilizzare il fine ascolto, una smania di sperimentazione, che in questo “Song of the Earth” si inoltra dentro le partiture dell’ensemble classico tedesco s t a r g a z e, creando una sensazione ancor più amplificata di straniamento, come se il tutto fosse aspirato in territori ancor più irti, privi ovviamente del groove delle migliori produzioni precedenti.
Le soluzioni canore femminili vagano libere nell’etere , colgono per dei microsecondi, ma sono decontestualizzate. il che potrebbe anche andar bene, poi spesso si innesta la voce quasi sempre in falsetto del leader, sormontata dagli archi sempre in primo piano: insomma, un’unione tentata di due universi estranei, non sempre lineare e a tratti forzata.
La fruizione ne risente, dopo poco si fa fatica a seguirne il filo, vista anche la mole, che al di là della proposta ne caratterizza una certa pretenziosità, insistita e, in contraddizione con gli intenti di salvaguardia ambientale, non sostenibile.