Normalmente, è difficile riuscire a parlare in termini razionali di un disco capace di colpire dritto al cuore fin dal primo ascolto. Ci sono, poi, alcuni casi in cui questo esercizio è ancora più complicato del solito, perché l’intensità emotiva delle canzoni è talmente strabordante che, anche se provi a metterti lì a scrivere una qualche descrizione distaccata, non puoi fare a meno di cantare certe frasi e certi ritornelli e più li canti, più essi ti trasportano e la razionalità fa davvero, davvero fatica a emergere. Questo secondo lavoro sulla lunga distanza degli Idlewild è uno di questi dischi, e allora, bando alla razionalità e lanciamoci in una descrizione tutto cuore, come, del resto, lo è questo capolavoro.

Vorrei, infatti, vedere voi, se riuscite a non farvi coinvolgere in primis dalla serie infinita di affermazioni declamate da Roddy Woomble lungo tutto il corso dell’opera. Frasi incisive, taglienti e di incommensurabile impatto; frasi che, una volta ascoltate, diventano necessarie da usare come motti nei confronti, a seconda dei casi, di sé stessi, delle persone che ci circondano o del mondo nel suo complesso. Voglio proprio vedervi se, una volta che avete ascoltato Roddy cantare in quel modo “all I need is a little discourage“, non avrete poi necessità di ripetervelo nei momenti in cui vi sentite frustrati e vorreste tanto vivere la vita in modo più distaccato. E non potrete evitare di apostrofare con “I bet you don’t know how to spell contradiction” chi vi fa arrabbiare nel momento in cui sfoggia una faccia diversa a seconda dell’occasione. E quanta voglia avrete di urlare a un destinatario indeterminato “Gertrude Stein said that’s enough” quando sarebbe necessario che un po’ tutti badassero al sodo invece di lanciarsi in elucubrazioni tanto lunghe e articolate quanto inutili e spesso controproducenti.

Basterebbe, quindi, la voglia irresistibile che questo disco fa di cantare con tutta la convinzione che abbiamo per decretarlo come un lavoro magnifico e che merita di essere celebrato per i suoi 25 anni, anche perché non mancano i momenti meno impegnativi intellettualmente, quelli in cui ci si lancia nel canto solo per il bello di farlo, come avviene per l’allitterazione “you shed a shade of shyness”, un momento particolarmente travolgente. Però, ecco, terminato il momento di incontrollabile entusiasmo, è comunque giusto cercare altri motivi di grandezza per questo album, oltre alle parole così azzeccate.

Il primo di essi risiede nella varietà sonora. Queste canzoni non godono di un set strumentale particolarmente ampio, ma le chitarre, assolute protagoniste, vengono usate in un ventaglio di modi piuttosto ampio, e passano con naturalezza da giri rotondi dal suono pulito a sferragliate dense, ruvide e arrabbiate. E il bello è che ogni singolo momento viene reso nel modo più corretto grazie alla modalità scelta di volta in volta. L’iniziale “Little Discourage” è già un microcosmo di tutto il disco, perché inizia con un arpeggio estremamente catchy e capace di rimanere in testa a lungo (io mi ero addirittura fatto la suoneria del cellulare quando i Nokia avevano l’apposita funzione), poi quando cambia la linea vocale arriva un accenno di riverberi e tutto il ritornello è accompagnato da una rasoiata aspra e dissonante, che rappresenta al meglio la frustrazione di cui parlavo sopra.

Il secondo, importante, punto di forza musicale del disco è nella varietà a livello di struttura e tipologia dei brani. Infatti, se è normale avere come primo pensiero, quando si torna con la memoria a questo album, singoloni come “Roseability”, “These Wooden Ideas” e “Actually It’s Darkness”, oltre alla già citata “Little Discourage”, non vanno tralasciati gli episodi con un minor coefficiente di cantabilità ma in grado di tenere sempre alta l’attenzione dell’ascoltatore, proprio per la differenza di proposta e, allo stesso tempo, l’inalterata capacità di colpire dritto al centro del bersaglio. Voglio dire, se il disco avesse un ipotetico trittico iniziale formato da “Little Discourage”, These Wooden Ideas” e “Roseability”, forse, alla terza canzone, suonerebbe tutto come una variazione sul medesimo tema; invece, la presenza in mezzo di “I Don’t Have The Map” spezza il flusso in un modo positivo, perché amplia subito gli orizzonti e fa capire che c’è altro oltre alle melodie orecchiabili. Lo stesso vale per brani come “Idea Track”, “Listen To What You’ve Got” e “Rusty”, che arrivano in momenti mirati e molto azzeccati e, ripeto, sono comunque canzoni di tutto rispetto e non semplici intermezzi per rendere più interessante l’ascolto complessivo.

Da ultimo, non va tralasciata la capacità, da parte della band, di abbassare l’intensità, sempre nei momenti giusti, e proporsi in chiave più morbida con canzoni strappalacrime come “Let Me Sleep (Next To The Mirror)” e l’accoppiata conclusiva “Quiet Crown” e “Bronze Medal”. Perché, se non si ha paura dei propri sentimenti, così come gli Idlewild mostrano di non averne in questo disco, non bisogna rifuggire dal nostro lato più introspettivo e riflessivo, perché tutti l’abbiamo e non includerlo in un’opera come questa sarebbe semplicemente contro natura.

In definitiva, “100 Broken Windows” è un disco completo come pochi altri, perché esalta al massimo il lato emozionale della musica ma ha anche numerosi pregi dal punto di vista strettamente qualitativo. È un disco che, se l’avete ascoltato, non vi può certo essere indifferente, e inevitabilmente porta con sé ricordi importanti, magari anche a anni di distanza, come quella volta, nel 2009, in cui al Great Escape di Brighton c’era il dubbio se andare a vedere proprio gli Idlewild o Patrick Wolf, in quel momento all’apice della popolarità. Io, Riccardo e Antonio scegliemmo il quartetto scozzese, la prima canzone fu proprio una di questo disco, ovvero “I Don’t Have The Map” e capimmo subito di aver preso la decisione giusta. Questo disco è la colonna sonora ideale per tutti noi outsider, contenti quando veniamo capiti ma orgogliosi di noi stessi quando, invece, subiamo ingiustizie e denigrazioni, perché noi lo sappiamo benissimo come si scrive contradiction, sono loro che non lo sanno, e noi dobbiamo solo preoccuparci di non farci travolgere dalle nostre stesse sensazioni, ma non certo di essere o non essere nel giusto, perché lo siamo, senza inutili dubbi né necessità di spiegarci.

Data di pubblicazione: 9 maggio 2000
Registrato: 1999 Londra, Chicago
Tracce: 12
Lunghezza: 43:57
Etichetta: Food
Produttori: Dave Eringa, Bob Weston

Tracklist
1. Little Discourage
2. I Don’t Have the Map
3. These Wooden Ideas
4. Roseability
5. Idea Track
6. Let Me Sleep (Next to the Mirror)
7. Listen to What You’ve Got
8. Actually It’s Darkness
9. Rusty
10. Mistake Pageant
11. Quiet Crown
12. The Bronze Medal