L’uscita di un nuovo album degli Arcade Fire si è ormai trasformato negli anni in un momento di speranza, non tanto di vederli ritornare ai fasti di tanti anni fa ma perlomeno di trovarsi di fronte un nuovo lavoro capace di regalarci qualche nuovo brano da amare e ricordare.

Credit: Danny Clinch

Dopo il passo falso di “Everything Now“ che era stato il primo momento inconsistente della loro carriera sembrava che con “We“, anche se ancora lontanissimo dai primi bellissimi lavori, avessero cercato di iniziare a recuperare un po’ dello spirito degli inizi, quello spirito che li aveva resi nei primi anni del 2000 un progetto interessante e originale.

Per quanto in quel periodo ci fosse una certa tendenza a paragonarli agli U2 ( cosa che all’epoca suonava come un grande complimento ) personalmente lo trovavo un accostamento non particolarmente centrato, gli Arcade Fire mi colpivano per il loro porsi come una big band con utilizzazione di varia strumentazione, una specie di collettivo capace di mostrarsi in tutta la sua forza e indipendenza soprattutto nei momenti live, in fondo paragonabili, per trovare un abbinamento attuale, alle espressioni che troviamo oggi in band come i Black Country New Road o ai Crack Cloud.

Ascoltandoli in questo nuovo lavoro sembra che questo spirito sia andato ormai perso, oggi gli Arcade Fire sono il duo Win Butler e Régine Chassagne che a partire da “We” sembrano aver preso totalmente in mano il progetto, e probabilmente questo può aver avuto un peso nella scelta fatta da Will Butler di uscire dalla band.

“Pink Elephant” e’ composto da dieci brani che, tolto il brano iniziale “Open Your Heart Or Die Trying” un’abbastanza insignificante intro che inspiegabilmente dura piu’ di tre minuti, “Beyond Salvation” una specie di intermezzo altrettanto inutile ma che questa volta dura poco più di un minuto e “She Cries Diamond Rain” praticamente come il precedente, il tutto si riduce in sette brani nei quali spesso a dominare è l’elettronica che ormai sembra essere la scelta verso il quale tendono muoversi.

Così giusto per semplificare andiamo a prendere “I Love Her Shadow” con la sua cassa dritta danzereccia e il basso sintetico, in questa sua dimensione elettronica ( a discapito di un arrangiamento classico ) finisce con il perdere tutta la sua grande potenzialità, riducendosi a un brano elettro pop troppo lungo.

La stessa cosa si ripete con “Alien Nation” con la voce Win Butler carica di effetti che si smarrisce in un brano con buoni presupposti ma che purtroppo non ha una grande forza attrattiva nei confronti dell’ ascoltatore, cosa che “I Love Her Shadow” invece in un certo qual modo esprime.

I singoli scelti sono quelli che aprono l’album, “Pink Elephant” con un accompagnamento alla chitarra risulta essere un brano gradevole ma senza picchi particolarmente emozionanti neanche nel ritornello e penalizzato dall’eccessiva lunghezza priva di un vero crescendo, e “Year Of The Snake” che personalmente preferisco e trovo maggiormente centrato.

Se fino ad ora vi fosse sfuggita la presenza di una certa tendenza verso le casse dritte danzereccie ecco allora “Circle Of Trust” a metterla in assoluta evidenza rivelandosi un gioco di elettronica non originalissima, “Ride Or Die” dove si abbassano i ritmi ma che risulta essere abbastanza anonima e infine “Stuck In My Head” dove, come una beffa, veniamo riportati indietro nel tempo e, con meno forza e ispirazione, chiude un album nel quale il pianoforte e tanta altra strumentazione sembra essere stati portati definitivamente in soffitta.

Gli Arcade Fire purtroppo non convincono, agli inizi della loro carriera furono impropriamente paragonati agli U2, oggi possiamo solo augurarci che non facciano la stessa fine perché questo timore sta piano piano prendendo consistenza.