“Big Dog”, l’album d’esordio di Bria Salmena, è il tipo di disco che non ha fretta di impressionare. Ti prende per mano in silenzio e ti accompagna in un paesaggio che sembra interiore ma è anche un collage sonoro di luoghi e momenti. Tra il ruggito di una chitarra distorta e il sussurro di un piano appena accennato, Salmena disegna il suo mondo: intimo, teso, vivo.

Frontwoman dei FRIGS e collaboratrice di Orville Peck, Bria non è nuova alla scena, ma in questo esordio solista mostra una voce che non cerca più un posto in mezzo agli altri: se lo prende. “Big Dog” è un titolo che nasce da un momento di fragilità, trasformato in mantra: un disco che parla di perdita, ma ancora di più di spinta – verso il fuori, verso l’alto, verso un’identità artistica che finalmente si rivela a pieno.
Prodotto insieme a Duncan Hay Jennings e con l’apporto prezioso di Graham Walsh (Holy Fuck) e Meg Remy (U.S. Girls), l’album alterna impennate post-punk a ballate indie-folk, con incursioni elettroniche e momenti quasi cinematografici. Il filo conduttore resta la voce di Salmena, ruvida, affilata, che riesce a graffiare e accarezzare nella stessa strofa.
Tra i brani più riusciti c’è “Stretch the Struggle”, dove un synth pulsante crea un vortice in cui la voce sembra affondare e risalire con determinazione. In “Rags” esplode un’energia brutale, mentre in “Peanut” tutto si ferma: pianoforte, voce, e un testo che, senza bisogno di spiegarsi troppo, ti lascia lì, sospeso. “You’re on a train in Japan / I’m sitting in the dark forgetting who I am” non è solo una frase: è una fotografia emotiva, un distacco che si sente addosso.
Eppure “Big Dog” non è un album perfetto. A tratti sembra rincorrere suggestioni già esplorate da voci come Julien Baker o Ethel Cain, perdendo un po’ di nitidezza. In certi passaggi, il non detto rischia di diventare un non visto, e alcuni testi restano troppo sfumati per lasciare davvero il segno.
Ma forse è proprio qui che sta la sua forza: “Big Dog” non è un’autocelebrazione, è una tappa. È un disco che non pretende di avere già tutte le risposte, ma che sceglie comunque di parlare, urlare, sussurrare. Un diario aperto, dove ogni pagina è una canzone e ogni canzone è una direzione diversa.
Alla fine, l’impressione che lascia è quella di un lavoro vivo, in movimento. Un disco che si ascolta meglio quando si è in viaggio – fuori casa o dentro di sé. E che, come tutte le cose vere, ha bisogno di tempo per essere capito. Ma che, una volta arrivato, resta.