Ammettiamolo pure: è difficile ritrovarsi a gustare il sapore delle novità nell’universo mainstream odierno. Molto è già stato inventato nel regno delle sette note. Tutto o quasi, in verità. Ed è proprio questo il motivo per cui bisogna apprezzare ancor di più i lavori messi su dalle nuove leve, soprattutto quando queste vanno a pescare a mani basse dal passato. Sì, insomma, se tutto è stato già scritto, allora tanto vale ripetere lo stesso copione ma al servizio della propria originalità. Questo e numerose altre cose deve aver pensato l’attore e cantante Joe Keery – in arte Djo – quando si è tuffato anima e corpo nella creazione del suo album in studio numero tre, “The Crux”.

Se nel precedente (nonché splendido) “Decide” il Nostro si era tuffato tra le atmosfere patinate del pop 80s, nella sua nuova opera lo Steve Harrington di “Stranger Things” (Dio quanto hype per ciò che avverrà in quel di Hawkins nella prossima stagione della serie) prova a muoversi con più costanza tra le coordinate indie-pop già intraviste nell’album d’esordio (“Twenty Twenty”). Provando a scandagliare più in profondità le pieghe di “The Crux”, invece, appare subito chiara l’impronta che l’artista americano ha voluto dare al progetto in questione: ovvero, impelagarsi tra le onde dorate di un retropop decisamente gustoso.
Del resto, “Basic Being Basic” – primo singolo estratto – aveva già fatto intuire quella che sarebbe stata l’antifona di un disco che – lo diciamo subito e senza girarci troppo intorno – ci entusiasma non poco per quel tocco di originalità a cui facevamo riferimento qualche riga più su. Sono due le stelle comete che hanno guidato Djo durante la realizzazione dell’album: i Cars del mai celebrato abbastanza Ric Ocasek e il Mercury dei Settanta (sìsì, proprio Freddie). “Link”, per esempio, è un chiaro omaggio ai Queen più danzerecci, mentre in “Back On You”, il coro angelico suggerisce più o meno la stessa cosa, attraverso delle linee di basso che a definire incalzanti si corre quasi il rischio di minimizzare.
Con un tocco più folk, simile ai primi lavori dei Tyrannosaurus Rex, “Potion” presenta un ritmo cadenzato condito da voci dal registro più acuto, archi che scaldano il cuore e un’acustica giocosa. “Cercherò per tutta la vita di trovare qualcuno che lasci accesa la luce per me“, canta Djo, invocando l’essenzialità dell’amore. Questo brano ha una malinconia più leggera rispetto al resto dell’album, come una sorta di (lungo) intermezzo soft. Proseguendo con l’ascolto, Djo ci riporta nuovamente negli Ottanta con quel pezzone che risponde al nome di “Delete Ya”. Si tratta, infatti, di una traccia che sembra la versione modernizzata dei successi di quel decennio con una batteria potente e avvolgente e un basso pulsante a dare continuità al brano; il tutto al cospetto di un suono che ricorda ancora una volta il caro vecchio Ric Ocasek (nel bridge). In soldoni, Djo intreccia i suoni di oggi con dei refrain vintage che spaziano tra i Settanta più psichedelici e gli Ottanta più glitterati. A conti fatti, dunque, potremmo trovarci di fronte a uno degli album più interessanti di quest’annata.