
In un contesto ampio e complesso come quello del documentario musicale, dove spesso si resta invischiati nella melassa della celebrazione e l’artista viene trasformato in un’icona di cartapesta, Matteo Berruto sceglie la strada più impervia, quella più vera. Nel suo film d’esordio intitolato “Con la pioggia dentro” il giovane regista romano – organizzatore del Ceprano Film Festival e già autore di diversi cortometraggi e videoclip – punta l’obiettivo su Giorgio Canali. Non un santino, non una leggenda da imbalsamare, ma un corpo vivo e scabro – tagliente come la sua voce, come la sua chitarra. Un pirata che canta mentre la nave affonda.
Il film – attualmente in fase di montaggio e sostenuto da una campagna di crowdfunding su Produzioni dal Basso alla quale potete partecipare cliccando su questo link – non è solo un omaggio a uno dei protagonisti più lucidi e irrequieti del rock alternativo italiano (noto per i suoi lavori con CCCP – Fedeli alla linea, C.S.I. e Rossofuoco e per aver prodotto dischi di nomi pesanti come Verdena, Tre Allegri Ragazzi Morti, Bugo e Le Luci della Centrale Elettrica), ma un atto di resistenza poetica contro la patinatura dell’esistente. Un viaggio nel presente per disinnescare la nostalgia; un dialogo intimo tra regista e soggetto, diretto e senza filtri. Proprio come una canzone di Canali: ruvida, sincera, con la pioggia dentro.
In questa intervista Berruto ci racconta la genesi e l’urgenza del progetto, la scintilla nata durante un concerto “pandemico” e l’importanza della fragilità come lente per raccontare la realtà così com’è. Una conversazione che è anche una riflessione su cosa significhi oggi fare cinema, suonare rock e restare fedeli alla linea in un mondo che preme, compatta, schiaccia – rendendo tutto mero prodotto.
Quando e come è nata l’idea di realizzare un documentario su Giorgio Canali? C’è stato un momento preciso che ha fatto scattare la scintilla?
E’ stata innanzitutto una folgorazione visiva. Gli occhi di ghiaccio, i capelli lunghi biondi, lineamenti scavati: ho sempre trovato cinematografica la sua fisionomia ancor prima di avere l’idea di fare un film su di lui. La scintilla definitiva è stata ad un concerto al Monk di Roma nell’ultimo giorno prima delle nuove chiusure di cinema, teatri e locali per il Covid, ottobre 2020. Concerto anticipato alle 19 per rispettare il coprifuoco e pochi spettatori seduti e distanziati. Ricordo che fuori c’era un clima da silenziosa fine del mondo. Vederlo cantare e suonare da solo sul palco con quell’atmosfera mi ha rimandato subito all’immagine di un pirata aggrappato all’albero maestro che canta mentre la nave affonda nella tempesta. Dopodiché è chiaramente subentrata l’idea che oltre a raccontare Giorgio Canali avrei avuto modo di raccontare alcune cose attraverso di lui.
Che reazione ha avuto Giorgio Canali quando gli hai proposto per la prima volta il progetto?
Mi sono avvicinato dopo un suo concerto ad Alatri, nell’estate del 2021, e mi ha risposto letteralmente “Non fregherebbe un cazzo a nessuno!“. Io gli ho risposto “A me sì“. Mesi dopo l’ho incontrato nuovamente prima di un concerto al Monk dopo aver preso appuntamento tramite la sua agenzia. Gli ho spiegato meglio l’idea (che nel frattempo avevo messo un po’ più a fuoco). Lui mi ha chiesto pochissime informazioni per poi dirmi “Vediamo se la cosa è divertente: lo sai che ci vogliono anni per fare una cosa decente, sì?”.
Cosa ti ha colpito maggiormente della figura di Canali: il musicista, il produttore, l’uomo…?
Il suo approccio al mestiere è sorprendente nella sua umiltà. A livello umano invece mi ha colpito la sua disponibilità e la sua generosità. E soprattutto ha poche sovrastrutture: ha una natura critica ma non ha pregiudizi.
Come si sono svolte le riprese? Hai seguito un piano preciso o ti sei lasciato guidare dagli eventi?
Mi sono lasciato guidare dagli eventi. Inizialmente le riprese erano limitate solo ai concerti, poi progressivamente la narrazione si è estesa in modo molto naturale a ciò che accadeva anche giù dal palco, probabilmente di pari passo alla crescita del rapporto tra me e Giorgio. Ho continuato a filmare finché non ho intravisto una struttura narrativa da assemblare.
Hai lavorato da solo con camera a mano e microfono direzionale: cosa ha significato per te questo tipo di approccio? Quali vantaggi e quali difficoltà ha comportato?
La camera a mano sa essere contemporaneamente sgraziata e ruvida ma anche intima e romantica. E sono tutte caratteristiche che ritrovo nella personalità e nella musica di Canali: mi è sembrato allora il miglior modo per raccontarlo a livello visivo. Penso che girare in solitaria (ad eccezione di un paio di concerti dove sono presenti riprese a più camere), oltre a rendermi meno invadente in ogni situazione, abbia facilitato il rapporto tra me e Giorgio: credo che nel film si avvertirà il rapporto diretto tra lui e me/la camera. Anche solo un’altra persona in più, ad esempio un altro operatore o un fonico, avrebbe creato una sovrastruttura e non avrebbe giovato alla naturalezza di alcune dinamiche che credo saranno la forza di questo film. Allo stesso tempo girare in solitaria non ha agevolato le cose a livello tecnico: filmare con una sola camera vuol dire non avere coperture e dunque dover fare i conti in montaggio con le proprie imprecisioni, che però, tutto sommato, credo possano addirsi bene ad un racconto che ruota attorno al rock. Penso sia un approccio molto simile a quello di suonare dal vivo.
Hai dichiarato che il film racconta il presente di Canali per poi ripercorrerne il passato. Come hai costruito questa sorta di narrazione inversa e quanto è stato difficile mantenere un equilibrio nel contesto biografico?
Penso che questo approccio sia fedele alla visione anti-nostalgica che ha Canali della vita. Se nel film ci sono elementi che richiamano il passato è perché il presente in qualche modo ne ha favorito il racconto.

Il documentario ha anche un lato più intimo: come hai trovato la giusta misura per trattare gli aspetti più personali di Canali?
L’intimità a volte si trova e si racconta nelle piccole cose. E soprattutto mantengo forte la distinzione tra intimo e privato. La giusta misura è anche favorita da Canali stesso: è un cantautore che mette molto, forse tutto, di sé nei testi delle canzoni e lo fa in modo sincero pur con il filtro della forma-canzone. Secondo me l’intimità passa per la sincerità e si può essere sinceri anche senza raccontare tutta la verità in modo analitico o morboso.
In che modo la “pioggia dentro” diventa chiave poetica e visiva del documentario? Il disco “Undici canzoni di merda con la pioggia dentro” ha un peso particolare nel film o ne ha solo ispirato il titolo?
La frase “canzone di merda con la pioggia dentro” è in almeno due canzoni di Canali oltre che nel titolo che citi. Parlando di quel titolo, Canali dice che il significato è letterale, ossia che in tutte le canzoni di quell’album contengono la parola pioggia. Io ci ho visto, e quindi ne faccio, un utilizzo più metaforico: descrive bene un’attitudine alla vita, un’inquietudine, un movimento interiore costante. Ma credo che questo significato in qualche modo sia pensato anche da lui. Lui aggiunge anche che questa è una pioggia che tutto lava e porta via: magari questa spiegazione la rubo per il futuro.
Che ruolo ha la musica all’interno del documentario? È commento, protagonista, sottofondo…?
Penso che ricopra tutti i ruoli ma in sintesi direi che ha un ruolo narrativo. Sia semplicemente perché è il mestiere del protagonista e della maggior parte delle persone che appaiono nel film, sia perché Canali è un cantautore e le sue canzoni raccontano di sé, dei suoi sentimenti e della sua visione della vita. Non ho ancora fatto scelte definitive di quali canzoni inserire nel montaggio finale, ma le sto scegliendo in base a quello che voglio raccontare e alle suggestioni che determinate canzoni danno e non solamente in base alla popolarità.
Raccontare Giorgio Canali significa anche raccontare un pezzo importante di storia del rock alternativo italiano. Quali sono le responsabilità e le libertà che ti sei preso nel farlo?
La responsabilità che sento è più nel racconto della persona (per rispetto verso di lui) che per il racconto del personaggio. Anche perché Giorgio stesso non è interessato ad una narrazione necessariamente edificante o accomodante di sé. Quando pensavo a questo progetto, prima di proporglielo, sentivo che con lui avrei avuto la possibilità di fare un racconto sincero e non patinato della persona e dell’artista e sono felice che questa mia sensazione sia stata confermata. Devo ringraziarlo per la libertà tutt’altro che scontata che mi sta dando nel racconto. Ovviamente poi mi piacerebbe che anche le persone legate e affezionate a Giorgio Canali apprezzino questo film.

Cosa significa per te fare un documentario musicale oggi, in un’epoca in cui la musica è spesso declassata a prodotto di consumo?
La musica andrebbe raccontata sempre perché è inspiegabile. La trovo una forma espressiva irraggiungibile e la più impattante sulle persone, al di là del genere. La musica ci racconta e dice qualcosa di noi anche diventando prodotto. Raccontare la musica è anche un modo per raccontare altro attraverso di essa. In questo caso mi interessa non solo la musica di Giorgio Canali, ma anche la sua attitudine alla vita, il suo modo di vivere le emozioni: e non solo perché sono le emozioni di Giorgio Canali, ma perché in alcune di esse mi ritrovo e ho a cuore raccontarle.
Hai avuto riferimenti o ispirazioni cinematografiche nel costruire il tuo film? Quali documentari, film o registi ti hanno influenzato?
Il primo riferimento (ed anche approccio iniziale) è sicuramente il direct cinema: su tutti il documentario “Don’t look back” su Bob Dylan. Filmare la realtà senza intervenire. Allo stesso tempo poi questa realtà raccolta va in qualche modo lavorata ed è quello che in montaggio sto facendo. Qui inevitabilmente subisco altri riferimenti. Sicuramente sono influenzato dall’approccio creativo al documentario che ha Pietro Marcello ad esempio (penso al suo documentario “Per Lucio” su Dalla rimanendo nell’ambito musicale), da certe suggestioni di Wenders e dal romanticismo a volte sgangherato di Wong Kar-wai, pur non c’entrando lui con il documentario. Potrei fare tanti nomi: credo che più che gli stili mi influenzino gli approcci, i metodi e soprattutto il sentimento di libertà espressiva di certi registi. Mi accorgo poi che nei film che ho più amato si percepisca che sono guidati da un sentimento di rabbia sana, anche quando si palesa nel modo più velato.
Pensi che una forma d’arte come il documentario musicale possa avere un ruolo nel preservare e raccontare una controcultura?
Dipende da come viene fatto: negli ultimi anni il genere, insieme al biopic, ha assunto un ruolo molto centrale nel cinema e credo anche nel mercato musicale. Questo ha portato spesso ad un appiattimento nel racconto che si fa degli artisti, troppo tendente all’agiografia: ad esempio, serve davvero fare documentari su leggende della musica, in cui si montano 20 interviste da mezzo minuto l’una in cui altre leggende dicono di quanto sia grande il protagonista senza aggiungere nulla a ciò che già sappiamo? Ecco, a proposito dei riferimenti: nei documentari musicali che ho visto ho sia cercato cose che mi potessero influenzare (e ne ho trovate molte e notevoli) ma anche cose che avrei voluto assolutamente evitare.
Secondo te ci sono tratti comuni tra il cinema e il rock indipendente? Un’estetica, un’attitudine, una fragilità condivisa?
Penso proprio di sì: in entrambi i casi dove non arrivano tecnica e mezzi, può arrivare la sensibilità personale. La fragilità è un bell’elemento in comune ed è una cosa preziosa perché è dovuta al contatto diretto con le cose che circondano il lavoro all’opera che si sta realizzando. Purtroppo quella libertà che dovrebbe contraddistinguere tutto ciò che è indipendente si scontra con la realtà. Questo film ad esempio sta avendo difficoltà produttive (un modo velato per dire che mancano i soldi per completarlo) e quindi ho tentato la strada del crowdfunding. Temo valga quello che diceva Pasolini in quella famosa frase: l’indipendenza, che è la sua forza, implica la solitudine, che è la sua debolezza. Amen.