Prosegue la seconda vita degli Underoath che, a distanza di poco più di tre anni dal precedente “Voyeurist”, tornano a farsi sentire con un album nuovo di zecca intitolato “The Place After This One”, il terzo pubblicato dopo la reunion del 2015. Coltello tra i denti, la band statunitense non arretra di un millimetro e prosegue imperterrita lungo un percorso artistico fatto di growl indemoniati, breakdown devastanti e riff di chitarra affilati come rasoi.

Credit: Bandcamp

La formula è sempre la stessa: su una base metalcore vengono innestati elementi emo, post-hardcore, nu metal e industrial. L’obiettivo finale è dar forma a canzoni potentissime che si mantengono in costante equilibrio tra la pesantezza tipica del genere e la melodia figlia del pop punk della prima metà degli anni 200, periodo in cui gli Underoath crebbero ed esplosero.

Ma la band capeggiata da Spencer Chamberlain non guarda al passato con nostalgia e, con la forza delle idee e della coerenza, riesce a dar forma a un metalcore moderno e incisivo che guarda tanto all’immediatezza simil-pop dei Bring Me The Horizon quanto al sound elettro-glitchato tipico dei più giovani Code Orange.

Il risultato è più che convincente: “The Place After This One” è un album che si lascia ascoltare con piacere, soprattutto quando si alzano i toni e il gruppo ci va giù davvero pesante (“Generation No Surrender”, “And Then There Was Nothing”, “Vultures”, quest’ultima con un ospite importante come Troy Sanders dei Mastodon).

Il sound in generale è un po’ troppo plastificato, schiacciato sotto il peso di inserti elettronici spesso superflui, ma non risulta poi così fastidioso da compromettere il risultato finale. Anzi: alcuni fra gli episodi più “sintetici” dell’album, nei quali si avvertono fortissimi gli echi nu metal (“Survivor’s Guilt”, “Teeth”), rappresentano validi esempi della versatilità degli Underoath.