C’è qualcosa di profondamente romantico nella strana storia dei Panchiko – sembra uscir fuori da una leggenda urbana a lieto fine. Inizia con una giovane band di Nottingham che nel 2000 autoproduce un EP intitolato “D>E>A>T>H>M>E>T>A>L” destinato a svanire nel nulla. Sedici anni dopo, una copia corrosa dal tempo del disco in questione viene trovata in un negozio dell’usato e postata su 4chan, in una message board di appassionati di musica alternativa. Da lì parte una vera e propria caccia al tesoro digitale che culmina nel 2020 con il ritrovamento del leader del gruppo, Owain Davies, su Facebook. I Panchiko tornano in vita, riprendono a suonare, registrano nuova musica dopo decenni di stop e si guadagnano – con un misto di fortuna, tenacia e talento – un posto nel panorama indie contemporaneo.

Credit: Adam Alonzo

“Ginkgo” è il primo album realizzato dal gruppo dopo aver abbracciato definitivamente la musica come professione. Il secondo in assoluto, dopo l’esordio “Failed at Math(s)” datato 2023. Trattasi di una prova più ambiziosa e stratificata rispetto alla precedente, costruita in modo tale da restituirci la complessità della loro peculiare parabola artistica. I Radiohead rappresentano il chiaro punto di riferimento dei Panchiko: l’ombra di Thom Yorke & co. aleggia costantemente su queste nuove composizioni, con la voce di Davies che sembra quasi un omaggio vocale volontario.

L’alt pop dei Panchiko – sospeso tra moderna elettronica e nostalgia anni ‘90 – si tinge di colori sempre imprevedibili: c’è la delicatezza “acida” della neo-psichedelia e la rarefazione dello shoegaze, le foschie del trip hop e qualche lampo di vivacità sincera che emerge in un cielo di quiete costante (forse persino troppo costante). La title track e “Honeycomb” sono due tra i momenti più riusciti, dove il pop si fa elegante, quasi barocco, senza perdere accessibilità. “Shelled And Cooked” invece guarda al folk con un approccio dolce e sognante, mentre “Subtitles” flirta con le note dolci di un jazz d’altri tempi. E poi c’è “Shandy In The Graveyard”, una delle parentesi più originali del disco, grazie alla collaborazione con il rapper americano Billy Woods che porta con sé una ventata di hip hop obliquo e tagliente.

La band quindi sa spaziare bene tra stili e linguaggi diversi, ma sembra voler semplificare ogni cosa per adattarsi alle logiche di un pubblico giovane, figlio della generazione TikTok, che li ha scoperti proprio su quella rete che ha regalato loro una seconda vita. Il risultato è un album poco coraggioso e alquanto noioso, quasi “anemico”, dove si fatica ad arrivare fino in fondo senza distrazioni. Le idee ci sono, ma restano imbrigliate in uno schema che predilige la forma alla sostanza.

Eppure, quando i Panchiko decidono di suonare davvero rock, dimostrano di saper lasciare il segno. “Lifestyle Trainers”, “Vinegar” e “Chapel Of Salt” sono gli episodi migliori del disco: tre brani energici, vitali, capaci di accendere la miccia e far intravedere una versione della band più decisa e meno incline all’autocompiacimento.

In definitiva “Ginkgo” è un lavoro ben prodotto, curato in ogni minimo dettaglio sonoro, ma artisticamente un po’ incerto. I Panchiko sembrano voler comunicare troppe cose tutte insieme, ma finiscono per smarrirsi dentro un linguaggio che non è ancora del tutto loro. Serve una direzione più chiara, meno compromessi, e soprattutto la voglia di uscire dall’ombra dei loro numi tutelari per costruirsi un’identità più definita. La fortuna li ha riportati sotto i riflettori, ora tocca a loro decidere come restarci.