
Viviamo in un’epoca di sfiducia. Di crisi esistenziali, spirituali, individualismi estremi, pensioni improbabili e speranze perdute. E se si provasse a recuperare un po’ di fiducia, abbattere i muri per riscoprire l’importanza della comunità? Questo è il quesito che si pone “Fumo”, ultimo disco dei Casino Royale (di cui trovate la recensione qui). Un lavoro importante quanto attuale, che abbiamo voluto approfondirne parlandone con Alioscia Bisceglia, voce del gruppo.
“Fumo” è un album molto continuativo, ascoltandolo risulta quasi difficile distinguerlo in più brani. Come nasce?
Il disco è nato proprio con questa intenzione, è la colonna sonora di un racconto dove si entra e si esce da un tema ricorrente, proprio come nelle colonne sonore appunto. Ci siamo resi conto che la definizione più adatta è quella della suite musicale, una selezione di brani composti e costruita da ascoltare in una sequenza precisa. Ti chiediamo mezz’ora di tempo dove ti fai questo ascolto un po’ immersivo dove si fanno delle riflessioni, ci sono dei momenti di sospensione dove, puoi perderti nell’immaginario musicale e riflettere anche su quello che hai quello che hai ascoltato prima. Non è un disco che vuole essere un insieme di hit nella speranza che finiscano in radio, è racconto sonoro.
Alla nostra età il preoccuparci della soglia di attenzione di chi ascolta non esiste più, non facciamo musica per il web, né per le radio o per le playlist di Spotify – che a quanto pare si sono sostituite al mio amico Dario Usuelli di Radio Deejay, che faceva la programmazione. Tu potevi sbatterti un casino, fare un pezzo assurdo, ma se lui non se lo considerava era come se non l’avessi fatto. Noi ci rivolgiamo invece a chi ci ha sempre ascoltato, anche se c’è sicuramente l’ambizione di essere ascoltati magari anche da un pubblico un po’ più giovane. Abbiamo avuto qualche feedback in tal senso, anche nel processo creativo, ad esempio con Alda, o i ragazzi di Asian Fake, con cui è esplosa la creatività collaborando con DeeMo, che è il nostro director.
Da parte loro abbiamo percepito un coinvolgimento tale che andava oltre lo sbatti lavorativo, era un progetto che sentivano proprio loro. Per riflessioni, per temi condivisi, per suono. Per essere un inizio sta andando bene, sta succedendo quello che mi auspicavo, cioé di rompere un po’ le barriere tra noi e i più giovani, perché alla fine non è che siamo così diversi. Se ci confrontiamo, io capisco meglio te e magari posso darti due dritte non su come diventare, come dire, un king dei social, ma magari su cosa serve davvero nella vita, su come non buttare via il tuo tempo, magari ci sono esperienze che io ho già vissuto e posso condividere con te. Io credo che sia molto importante far dialogare generazioni diverse in questo momento in cui siamo tutti quanti un po’ persi, in cui è veramente difficile ritornare a costruire un noi.
A prescindere da quello che succederà, se il disco fa successo o meno, questo è stato un percorso che mi ha arricchito parecchio. La gente arriva e dice che c’era bisogno di una roba così, e questo ti fa vedere che tutto sommato le persone hanno voglia di altro – basti vedere com’erano tutti entusiasti di vedere Lucio Corsi a Sanremo.
Se penso a fare musica come a un percorso di incontro, di sperimentazione, di restituzione di esperienze, per adesso secondo me sta andando bene.
Parlando proprio di incontri, come avete conosciuto Alda?
Tutto è partito da un concerto a Reggio Emilia [Fotografia Europea, ndr] dove ho collaborato con Venerus per due pezzi, di lì il collegamento con Asian Fake (che mi ha fatto conoscere Alda). Sono andato a vederla, e ho visto questa ragazzina incazzata nera.
Si sente anche nel disco, decisamente.
Esatto, ma oltre alla rabbia ha anche una forte volontà di avere un punto di vista sociale, ha grande energia, un po’ Public Enemy. Le ho scritto, dicendole che avrei voluto che si sentisse nel disco una vampata di energia, perché io credo che voi possiate cambiare lo scenario, perché siete liberi dalle ideologie. Volevo una svolta un po’ positiva in un disco molto comunque pre-apocalittico, un po’ cupo.
Sì, tant’è che si parla anche di “macerie di un futuro già distrutto”. [da “Riprendermi Tutto”, ndr]
[Canticchiando, ndr] “It’s up to you a riprenderti tutto“. Alda mi manda un vocale e mi dice “guarda, c’ho provato, ma io non riesco a trovare una chiave di positività, io continuo a sentire, anche in questo disco, un senso di abbandono e di rabbia”. Quel confronto mi ha aperto una finestra su una ferita sofferente, è da lì che ho scritto “Odio e Oro”, rivolto proprio a questa generazione. Anche il fidanzato di Alda, Michele Nannini (che fa le grafiche di Asian Fake), mi manda un messaggio in cui dice che è veramente orgoglioso di far parte di questo progetto, e per me questa è una bomba. Siamo passati dall’arroganza di sentire “oh, boomer di merda” ad avere qualcuno che ti sostiene e ti arricchisce dentro.
Dopotutto siamo già in un momento particolare, in cui ci vogliono tutti polarizzati gli uni contro gli altri: pro-vax, no vax, pro-Ucraina, pro-Russia, pro-Hamas, pro-Palestina, pro-Israele, antisemita, c’è libertà di parola ma in realtà no perché poi ti randellano. Poi però se c’è un raduno di duemila fasci nessun problema, loro sono quelli civili che esprimono la propria opinione, mentre tu vai a una manifestazione, vieni arrestato, pigli delle mazzate e sei quello che ce l’ha con gli sbirri. In questa confusione estrema, questo individualismo totale, noi cerchiamo di capire qual è il flusso di coscienza che può riportare al noi.
Invece di scannarci tra di noi capiamo chi trae vantaggio da tutto questo e ha bisogno di farci andare gli uni contro gli altri, farci distrarre da tutte le porcherie, e continuare a farci comprare cose inutili. Dico delle banalità, però sono cose talmente evidenti adesso. Magari il nostro è un disco che risulta abbastanza contemporaneo adesso, direi.
Personalmente, per me è stato un po’ tragicomico. L’ho ascoltato poco dopo aver letto una notizia in cui si parlava del triste futuro per le pensioni dei nati dopo il 1990: certo, non è che avessi grandi aspettative dopo aver letto la notizia, un po’ me l’aspettavo già. Diciamo che ascoltare il disco all’inizio mi ha consolata nel mio sconforto, poi verso la fine mi ha anche dato un po’ di speranza. Direi che in “Fumo” c’è proprio un bel contrasto tra rabbia e speranza, non trovi?
Sì, è praticamente il concetto di positivismo della volontà: il contesto è una merda, ma noi possiamo cambiarlo. Ad esempio, ci sentiamo oppressi da questo governo perché la gente non va a votare. Tutta la sfiducia che hanno inculcato nella politica è stata sistematica. Alla fine basterebbe un po’ più di partecipazione per cambiare le cose, poi è anche vero che ora come ora non darei il mio voto a nessuno.
A sinistra c’è molta puzza sotto il naso, ma quella a destra è una destra autoritaria che quando ne avrà l’opportunità sarà repressiva. La negazione del pluralismo, insomma.
Uscito l’album, suonerete in diversi festival, come lo Sherwood a Padova. Riprendendo proprio i festival, ci sono realtà italiane che ti intrigano particolarmente?
Allora, io non amo i classici festival con due palchi grandi, a destra e sinistra in un campo sportivo. Ci vado a suonare volentieri, ma magari non sono i tipi di festival dove andrei. Quelli che mi piacciono di più sono immersivi, quelli dove viene premiata l’experience.
Tipo?
L’Italia è un posto fantastico, ha un patrimonio agroalimentare meraviglioso, e io voglio andare in un festival dove non ci sono troppe persone, mangio bene e bevo altrettanto bene. Jazz:Re:Found ad esempio ha fatto un ottimo lavoro, come anche il Terraforma e il Siren. Non sono per il classico festivalone rock con i palchi – poi magari vado anche al Sonar, ma me lo vivo sempre un po’ da privilegiato, con il backstage e tutto. Diciamo che, in generale, se voglio collassare voglio collassare.
L’estate scorsa poi mi sono occupato della direzione artistica dell’Open Sound a Matera. Lì, più che prendere gente che è in tour, ho preferito avere dei contenuti unici, produzioni nuove, quelle sono le cose che mi interessano di più. Che poi, se ci fai caso, nei festival più grandi le line-up sono sempre le stesse.